attualità, politica italiana

"Gheddafi, un circo che ci umilia", di Francesco Merlo

Nessun’altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell’eccesso, nella vanità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare. Anche ieri c’era il picchetto in alta uniforme ai piedi della scaletta dalla quale sono scese due amazzoni nerborute e in mezzo a loro, come nell’avanspettacolo, l’omino tozzo e inadeguato, la caricatura del feroce Saladino. Scortato appunto da massaie rurali nel ruolo di mammifere in assetto di guerra. E va bene che alla fine ci si abitua a tutto, anche alla pagliacciata islamico-beduina che Gheddafi mette in scena ogni volta che viene a Roma, ma ancora ci umilia e davvero ci fa soffrire vedere quel reparto d’onore e sentire quelle fanfare patriottiche e osservare il nostro povero ministro degli Esteri ridotto al ruolo del servo di scena che si aggira tra le quinte, pronto ad aggiustare i pennacchi ai cavalli berberi o a slacciare un bottone alle pettorute o a dare l’ultimo tocco di brillantina al primo attore.

È vero che ormai Roma, specie quella sonnolente di fine estate, accoglie Gheddafi come uno spettacolo del Sistina, con i trecento puledri che sembrano selezionati da Garinei e Giovannini, la tenda, la grottesca auto bianca, le divise che ricordano i vigili urbani azzimati a festa, e tutta la solita paccottiglia sempre uguale e sempre più noiosa ma, proprio perché ripetuta e consacrata, sempre più umiliante per il Paese, per i nostri carabinieri, per le istituzioni e per le grandi aziende, private e pubbliche, che pur legittimamente vogliono fare i loro affari con la Libia.

Nessun’altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace – e lo diciamo sinceramente – anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell’eccesso, nella vanità, nel vagheggiare l’epica dell’immortalità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare.

Di nuovo ieri Gheddafi si è esibito davanti a 500 ragazze, reclutate da un’agenzia di hostess, che hanno ascoltato i suoi gorgoglii gutturali tradotti da un interprete, le solite banalità sulla teologia e sulla libertà delle donne in Libia, il Corano regalato proprio come Berlusconi regala “L’amore vince sempre sull’odio”, quel libro agiografico e sepolcrale edito da Mondadori. È fuffa senza interesse anche per gli islamici ma è roba confezionata per andare in onda nella televisione di Tripoli. Il capotribù vuol far credere alla sua gente di avere sedotto, nientemeno, le donne italiane e di averle folgorate recitando il messaggio del profeta. Addirittura, con la regia dell’amico Berlusconi, tre di queste donne ieri si sono subito convertite, a gloria della mascolinità petrolchimica libica: “Italiane, convertitevi. Venite a Tripoli e sposate i miei uomini”.
E di nuovo ci mortifica tutta questa organizzazione, il cerimoniale approntato dalla nostra diplomazia, con Gheddafi serio ed assorto che suggella la fulminea conversione di tre italiane libere e belle: un gesto di compunzione, gli occhi chiusi per un attimo, il capo piegato come un officiante sul calice. “L’Islam deve diventare la religione di tutta l’Europa” ha osato dire nella capitale del cattolicesimo, mentre l’Europa (con l’America) si mobilita per salvare la vita di una donna che rischia la lapidazione per avere fatto un figlio fuori dal matrimonio. Certo, l’Islam non è tutto fanatismo ma nello sguardo di Gheddafi c’è condensata la sua lunga vita di dittatore, di stratega del terrorismo, di tiranno che dal 1° settembre del 1969 opprime il suo popolo.

Ebbene, è a lui che oggi Berlusconi di nuovo bacerà la mano, come ha già fatto a Tripoli. Berlusconi, lasciandosi andare con i suoi amici fidati, ha più volte detto di invidiare Muammar perché comanda e non ha lacci, non combatte con il giornalismo del proprio paese, non ha bisogno di fare leggi ad personam ma gli basta un solo editto tribale, non ha né Fini né Napolitano, non ha neppure bisogno di pagare le donne… È vero che gli esperti di Orientalistica sostengono che la tribù in Libia è matriarcale e che dunque la moglie di Gheddafi sarebbe la generalessa del colonnello, ma questo Berlusconi non lo sa, la sua Orientalistica è ferma a quella dell’avanspettacolo, al revival di Petrolini: “Vieni con Abdul che ti faccio vedere il tukul”.

E infatti ogni volta che Berlusconi va a Tripoli Gheddafi fa di tutto per stupirlo con gli effetti speciali del potere assoluto, gli fa indossare la galabìa e lo fa assistere alle parate militari delle amazzoni, organizza il caravanserraglio di Mercedes piene di farina, orzo e datteri da distribuire agli affamati recitando il ruolo del salvatore, proprio come Berlusconi all’Aquila… E ha pure imposto nei passaporti libici la foto di Berlusconi. Se lo porta nel deserto di notte per mostrargli la magia del freddo glaciale, tutti e due ad aspettare l’alba e il sole che torni ad arroventare la tenda. E ogni volta alla tv libica il viso di Berlusconi diventa in dissolvenza il viso di Gheddafi, e va in onda Berlusconi contrito nel museo degli orrori commessi dagli italiani, e c’è sempre il solito Frattini accovacciato fuori dalla tenda ad aspettare, aspettare, aspettare. E poi il tramonto, la luna…

Gheddafi a Roma fa quello che vuole non soltanto in cambio delle galere e dei campi di concentramento dove la polizia libica trattiene gli africani che vorrebbero fuggire verso l’Italia, e non solo perché i due fanno affari privati, come da tempo sospetta la stampa internazionale, e ora anche italiana. Il punto è che Berlusconi gli mette a disposizione tutto quello di cui ha bisogno l’eccentricità beduina perché con Gheddafi ha un patto antropologico. È una somiglianza tra capi che la storia conosce già, sono identità che finiscono con il confondersi: Trujllo e Franco, Pinochet e Videla, Ceausescu ed Enver Hoxha, Pol Pot e Kim il Sung… Non è l’ideologia a renderli somiglianti ma l’idea del potere, quello stesso che oggi lega Berlusconi e Gheddafi, Berlusconi e Chavez, Berlusconi e Putin. Ecco cosa offende e degrada l’Italia: l’Asse internazionale della Satrapia.

La Repubblica 30.08.10

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“Le vacanze romane di Gheddafi Fra proteste e caroselli a cavallo”, di U. De Giovannangeli

Stavolta il contrordine non è arrivato. Il Colonnello, i purosangue, le tende beduine, le amazzoni con i baschi rossi e in alta uniforme, sono a Roma. Nessun rinvio, stavolta. Nessuna imbarazzata correzione dell’ultim’ora da parte della Farnesina. I fotoreporter, i cineoperatori, possono prendere d’assalto il super blindato aeroporto di Ciampino. L’appuntamento è a mezzogiorno. Gheddafi c’è. A ricevere il Raìs non sarà l’«amico Silvio» ma il ministro degli Esteri Franco Frattini. Resta il mistero su come il Colonnello trascorrerà la domenica romana. I primi appuntamenti ufficiali per i festeggiamenti del Trattato di Amicizia sono fissati per lunedì, a due anni esatti dalla firma dell’accordo di Bengasi del 30 agosto 2008. Ma anche stavolta non si escludono possibili «blitz» nelle strade della Capitale o più generici «incontri con la gente».

Domenica libera. «Il leader ama fare queste cose…», raccontavano nel pomeriggio di ieri fonti libiche. E tornano alla mente le «serate di gala» dello scorso novembre, quando Gheddafi – a Roma per il vertice Fao – si fece reclutare centinaia di avvenenti ragazze da un’agenzia di hostess per impartire lezioni di Islam sotto la tenda. «Non sappiamo cosa vorranno fare questa volta i libici, decidono sempre all’ultimo minuto – raccontano dalla sede dell’agenzia che “servì” Gheddafi l’ultima volta -. Ci hanno contattato negli ultimi giorni per allertarci nel caso servisse, ma ci sembra di capire che se Gheddafi vorrà, inviterà solo alcune delle ragazze che ha già visto l’altra volta. Noi comunque – assicurano – siamo pronti per qualsiasi evenienza». Sorprese a parte, c’è già anche qualcosa di già definito. È confermato ad esempio che Gheddafi pianterà la sua inseparabile tenda beduina nella residenza dell’ambasciatore Abdulhafed Gaddur in un elegante quartiere a ridosso della Cassia (e non nel bel mezzo di Villa Pamphili, come nel giugno del 2009) e che domani pomeriggio inaugurerà assieme a Berlusconi una mostra fotografica sulla storia della Libia all’Accademia libica.

Spettacolo assicurato Il clou della serata sarà uno spettacolo equestre davanti a Berlusconi, Gheddafi e agli oltre 800 invitati che culminerà con le figure disegnate dal Carosello dei Carabinieri. Sarà sempre nella caserma «Salvo D’Acquisto» di Tor di Quinto, che il premier offrirà al suo ospite l’Iftar, la cena di interruzione del digiuno previsto nel mese di Ramadan. Fino a questo momento è l’ultimo appuntamento segnato in agenda, con Gheddafi che dovrebbe – ma il condizionale diventa d’obbligo – ripartire martedì. Nel frattempo, cresce la protesta. «Ancora non abbiamo visto un euro», denuncia l’Airl, l’associazione degli italiani rimpatriati dalla Libia. Dell’Airl, Giovanna Ortu, nata nel 1939 nel Paese africano da padre sardo e madre siciliana e cacciata assieme ad altre 20.000 persone nel luglio 1970, subito dopo la presa del potere da parte del colonnello Gheddafi nel settembre 1969, è la presidente.

Voci di protesta «Più che di risarcimento – spiega Ortu in un colloquio con l’Adnkronos – , si tratterebbe di un modesto indennizzo, rispetto ai 400 miliardi di lire al valore del 1970 che rivalutati sarebbero pari a circa 3 miliardi di euro di oggi; una somma praticamente pari ai 5 miliardi dollari destinati dal nostro governo alla Libia per i cosiddetti danni del colonialismo e pagati attraverso la costruzione di un’autostrada e altre opere urbanistiche, per i cui lavori sono comunque interessate aziende italiane: una sorta di “partita di giro” insomma. Ma la realtà è che anche di questo modesto indennizzo nelle nostre tasche non è arrivato finora nulla».

I diritti umani? A Berlusconi si rivolge anche l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi chiedendogli «di rinegoziare in tempi rapidissimi gli accordi Italia-Libia in maniera tale che includano strumenti di garanzia del rispetto dei diritti umani, con il coinvolgimento delle istituzioni dell’Europa e dell’Onu». «Chiediamo inoltre – dice il responsabile generale, Giovanni Paolo Ramonda – la cessazione di ogni respingimento verso la Libia o verso ogni altro Paese che non garantisca il pieno rispetto dei diritti umani; la garanzia a tutti gli immigrati che cercano di raggiungere l’Italia di poter accedere alle procedure per la richiesta di asilo; il rispetto delle leggi del diritto del mare; la promozione di una politica seria per l’innalzamento dei finanziamenti ai progetti di sviluppo, unici in grado di combattere la povertà e quindi di agire sulla causa». L’associazione ricorda alle istituzioni italiane «che dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, il nostro Paese ha consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l’Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, guerre e condizioni di povertà estrema».

L’Unità 30.08.10

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Boldrini: riaprire Onu per rifugiati a Tripoli

L’ufficio a Tripoli dell’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, deve riprendere appieno la propria attività, perché in Libia «il problema dei rifugiati esiste e la nostra presenza lì è estremamente importante». Nel giorno della visita a Roma del leader libico Gheddafi, la portavoce italiana dell’Unhcr, Laura Boldrini, ricorda qual è la situazione dell’agenzia dell’Onu in Libia. E questo situazione, afferma, si collega anche con gli effetti della politica dei respingimenti: «Prima dei respingimenti, il 75% di coloro che arrivavano in Italia via mare partendo dalla Libia – spiega Boldrini – faceva richiesta di asilo e nel 50%, a seguito di audizioni individuali, le autorità italiane accordavano una forma di protezione. Ora non potendo più arrivare e non potendo noi lavorare appieno, queste persone si trovano in una situazione di limbo».

Le autorità libiche hanno decretato la chiusura degli uffici Unhcr a inizio giugno, definendo illegale la presenza nel Paese e hanno poi consentito una parziale riapertura, imponendo però molti paletti. «Lavoravamo in Libia da 19 anni – spiega Boldrini ripercorrendo le tappe della vicenda – su richiesta delle autorità locali, ma non avevamo un accordo di sede, nel senso che questo aspetto non era stato formalizzato. Questo, però, accade anche in altri Paesi, tenuto conto che ci troviamo spesso a intervenire in condizioni di urgenza e in contesti estremamente delicati». Come in Siria, dove l’Unhcr non ha mai formalizzato la propria presenza.

«Dopo un incontro tra una delegazione inviata da Ginevra ed esponenti del governo di Tripoli, il nostro ufficio è stato parzialmente riaperto a fine giugno». Ma i termini della situazione, spiega Laura Boldrini, restano «ancora da definire». «Ci è stato detto – spiega – che ci dobbiamo occupare solo dei vecchi casi e non acquisirne nuovi». Ma in questa fase l’Unhcr «non ha accesso ai centri di detenzione libici, dove si trovano anche i richiedente asilo e quindi non può avere colloqui con loro nè fornire aiuti materiali, se necessario. Siamo in una situazione di stand-by, nell’attesa di poter riprendere i negoziati». L”Unhcr si augura che con la festa dell’Id Al Fitr, che in questi giorni segna il termine del mese di digiuno del Ramadan, «possa riprendere la discussione per arrivare ad un accordo di sede per la struttura di Tripoli».

«La Libia – osserva la portavoce – non ha una legislazione in materia di asilo né ha firmato la convenzione di Ginevra del ’51», uno dei pilastri del diritto d’asilo. «I rifugiati vengono associati al fenomeno della migrazione per motivi economici. Ma l’esperienza sul campo – conclude Boldrini – dimostra che le cose stanno diversamente. Per questo la nostra presenza a Tripoli è estremamente importante».

30.08.10

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“E il Cavaliere: è solo folklore”, di Francesco Bei

Alta tensione nel governo per le uscite stravaganti della Guida libica. In subbuglio l´ala cattolica, in imbarazzo gli altri, a partire dai leghisti. Ma visti gli interessi economici in ballo, la parola d´ordine del Cavaliere è “non alzare polveroni”.
«Le cose serie sono altre, lasciamo perdere il folklore». Ma è evidente che tutti si augurano che il «gradito ospite» se ne riparta senza far troppi danni il prima possibile. Lo stesso Berlusconi, che questa sera offrirà al Colonnello una cena insieme ad altri 800 invitati, ieri si è tenuto lontano dalla Capitale, lasciando che fosse il ministro Franco Frattini ad accollarsi l´arrivo di Gheddafi a Ciampino.
La linea di palazzo Chigi è dunque quella di minimizzare le frasi provocatorie del dittatore libico, cercando di spostare l´attenzione sui vantaggi per l´Italia di una visita comunque difficile da gestire dal punto di vista mediatico. «Le commesse che il governo ha concordato con i libici – spiegano nel governo – hanno aiutato le imprese italiane a fronteggiare la crisi. Gli italiani questo lo capiscono benissimo». Quanto agli eccessi dello scorso anno, gli uomini del premier sono certi che stavolta sarà tutto molto più sobrio: «L´anno scorso si chiudeva un rapporto storico, veniva archiviato il passato coloniale. Un´operazione enorme, che neppure la Francia ha fatto con l´Algeria. E Gheddafi colse l´occasione per calcare un po´ i toni, rivolto all´opinione pubblica dei paesi arabi e ai libici che lo seguivano dalla tv a casa. Stavolta è diverso, inoltre la parte ufficiale della visita durerà solo un giorno». C´è tuttavia anche la possibilità che questa sera Gheddafi inviti a sorpresa Berlusconi alle celebrazioni del primo settembre a Tripoli, per l´anniversario della “rivoluzione” (il colpo di stato militare) che rovesciò re Idris. A quel punto il premier non potrebbe sottrarsi, specie se l´invito sarà formulato in pubblico.
Ma la curvatura “islamica” che il Colonnello ha voluto dare alla sua visita mette a disagio i cattolici e rischia di creare qualche tensione con il Vaticano. Un rapporto, quello tra il governo e la Chiesa, che Gianni Letta cura da vicino, tanto da aver partecipato alla “Perdonanza” all´Aquila nonostante le contestazioni annunciate dei terremotati. Dal caso “Boffo” dello scorso anno quel fronte è sempre in cima alle preoccupazioni di palazzo Chigi e la predicazione coranica del Colonnello, nel cuore della città di San Pietro, scopre un nervo sensibile. Di fatti, nonostante la consegna del silenzio, gli esponenti del Pdl più vicini al mondo cattolico scalpitano. «Quello che più mi preoccupa – spiega Maurizio Lupi, reduce dal Meeting di Cl – è che ci stiamo abituando a questi show di Gheddafi, tanto che queste stupidaggini sull´Islam passano quasi in secondo piano. Bisognerebbe ricordargli che proprio la generosa accoglienza nei suoi confronti testimonia tutta la grandezza della cultura cristiana che è alla base dell´identità europea». Insomma, conclude il vicepresidente della Camera, «Gheddafi può dire quello che vuole, il governo non è in imbarazzo. Ma noi però possiamo anche giudicarlo e sarebbe bene che le sue prediche le andasse a fare da un´altra parte». Anche il sottosegretario Carlo Giovanardi mastica amaro: «Mentre Gheddafi può venire a dire a Roma quello che vuole, il Papa non può andare a Tripoli o in Arabia Saudita a fare altrettanto. È sgradevole». Giovanardi tuttavia fa una tara sulle uscite «folkloristiche» del leader libico: «Ha atteggiamenti stravaganti, ma anche il nostro benamato presidente Cossiga diceva ogni tanto cose che scandalizzavano».
C´è infine il problema della Lega Nord. Il corpaccione del Carroccio vorrebbe reagire e, come al solito, è il sulfureo Borghezio a dare voce al sentimento prevalente nella base lumbard. Se per Roberto Calderoli, visto il tragico precedente della t-shirt con le vignette su Maometto, il silenzio è comprensibile, a consigliare prudenza agli alti papaveri del Carroccio è invece la questione immigrazione. «Grazie ai libici – spiega una fonte – Maroni ha potuto bloccare gli sbarchi dei clandestini sulle coste italiane. Se li facciano arrabbiare quelli aprono i campi e si ricomincia con i gommoni nel canale di Sicilia». Insomma, la realpolitik, per una volta, impone anche ai leghisti di baciare il rospo e augurarsi che riparta in fretta.

La Repubblica 30.08.10

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