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"Perché non siamo un Paese per scienziati", di Irene Tinagli

Gli italiani non sono solo un popolo di poeti e navigatori, ma anche di ottimi medici e scienziati. Non c’era certamente bisogno di una nuova classifica per appurarlo, tuttavia la lista della Virtual Italian Academy, che valuta la performance in termini di pubblicazioni e di impatto accademico di 400 ricercatori italiani, ce lo conferma e ci costringe a ricordare nomi di nostri illustri connazionali che troppo spesso lasciamo in ombra. Nomi come quelli di Carlo Croce, Napoleone Ferrara, Giorgio Trinchieri, Alberto Mantovani e molti altri ancora. Uomini (e donne, come Silvia Franceschi, a capo del gruppo di biologia ed epidemiologia dell’Agenzia internazionale per la Ricerca sul Cancro di Lione) che hanno dato e stanno dando contributi essenziali alla lotta contro malattie come il cancro, l’Hiv, la leucemia, l’epatite e molte altre che affliggono il genere umano.

La classifica però ci offre anche altri spunti di riflessione. La prima cosa su cui ragionare è la constatazione che una grande fetta di questi nomi eccellenti non stanno conducendo la loro ricerca in Italia ma all’estero.

Tra i migliori 20 solo 7 lavorano in Italia, gli altri 13, ovvero il 65%, sono tutti fuori. Allargando la lista ai top 50 le cose non migliorano molto: quasi il 60% dei migliori 50 è all’estero. Le proporzioni si invertono se andiamo a vedere la parte bassa della classifica: tra gli ultimi 100 il 74% è in Italia. Questo non significa solo che gli altri Paesi ci rubano tutti quelli più bravi, perché in realtà molti di quelli che sono all’estero vi si sono trasferiti assai prima di diventare famosi (Carlo Croce è in Usa da circa trent’anni, Napoleone Ferrara dai tempi del suo postdottorato alla Ucla, e potremmo fare altri esempi analoghi), ma significa che chi è andato all’estero, pur avendo già una marcia in più, ha trovato le condizioni giuste per poter sfruttare questa marcia e correre più veloce verso la meta.

È anche per questo che se andiamo a vedere l’indice H, ovvero l’indice di performance utilizzato per stilare la classifica, e ne calcoliamo la media per tutti i ricercatori che sono in Italia confrontandola poi con la media di coloro che sono all’estero, ci accorgiamo che i ricercatori che lavorano in Italia hanno una performance media molto più bassa di quelli all’estero. L’indice di performance medio per i ricercatori che lavorano in Francia è di 57.4, per quelli in Usa è 56.3, per quelli in Svizzera 51.8, per quelli in Italia è 44.9. Si tratta chiaramente di numeri da prendere con estrema cautela, perché includono ricercatori attivi in settori anche molto diversi e quindi non sempre confrontabili, ma a livello meramente indicativo danno quantomeno dei segnali. Il segnale chiave è che all’estero la produttività scientifica, che non dipende mai esclusivamente dall’individuo ma dal contesto in cui si forma e opera, è assai più elevata che da noi.

Un’altra cosa importante da tenere in considerazione è che i nostri ricercatori all’estero non solo hanno avuto le condizioni per crescere e affermarsi, ma anche quelle per formare le nuove generazioni di scienziati del Paese in cui operano. Infatti la maggior parte di loro sono ormai da molti anni direttori di grandi centri di ricerca che hanno a disposizione centinaia di giovani e centinaia di milioni di dollari per fare ricerca, assumere e far crescere nuovi ricercatori. Un sistema così oliato non solo garantisce all’individuo bravo l’opportunità di lavorare bene e di emergere, ma dà a tutto il sistema di ricerca nazionale una continuità fondamentale per contribuire al benessere e alla crescita del Paese. La possibilità di avere risorse assegnate sulla base delle capacità e dei risultati, nonché quella di poter assumere e coordinare team di ricerca capaci, affiatati e operativi con una certa continuità sono condizioni essenziali per la produttività della ricerca scientifica. Purtroppo in Italia queste condizioni sono mancate per troppo tempo e solo in parte riusciranno a essere generate dalla recente riforma delle Università (sempre che i numerosi aspetti su distribuzione di fondi e incentivi lasciati a provvedimenti successivi del governo vengano poi attuati). Senza contare che le condizioni per una buona ricerca non stanno solo nel sistema di funzionamento dell’Università. In Italia non se ne parla mai, ma per fare ricerca non servono solo assunzioni o laboratori. È altrettanto importante, per esempio, poter avere o raccogliere dati, informazioni, statistiche, condurre esperimenti, studiare casi. E questa disponibilità dipende dall’organizzazione e dal funzionamento di mille altri enti e istituti: dall’organizzazione di Asl e ospedali fino all’Istat e alla Banca d’Italia.

In alcuni settori tali condizioni sono anche migliori in Italia che in altri Paesi (per esempio in alcuni ambiti medici, dove non a caso abbiamo eccellenze significative), mentre in altri settori (per esempio in alcune scienze sociali come sociologia, alcuni rami di economia e public policy), i dati disponibili sono spesso lontani dalla quantità e soprattutto qualità di quelli disponibili in altri Paesi. In Italia si fanno tanti sondaggi d’opinione, ma i dati statistici che servono per la ricerca accademica fanno fatica a essere raccolti e resi pubblici in modo sistematico, costante e capillare. Manca una cultura che veda in queste attività una forma di investimento per la conoscenza e la crescita del Paese. Basta pensare che a maggio 2010 l’Istat non aveva ancora ricevuto i fondi per la realizzazione del censimento 2011.

Insomma, le eccellenze non sono e non possono essere punte di iceberg che ogni tanto ci sorprendono e ci fanno compiacere della nostra bravura. Sono fenomeni che vanno saputi coltivare e portare avanti con costanza, consapevolezza, lungimiranza, dentro e fuori le università. Implicano uno sforzo collettivo, economico e culturale. L’Italia dovrebbe cercare di lavorare di più sulle condizioni affinché chi resta in patria possa essere produttivo al pari dei propri colleghi all’estero, e affinché possa realizzare questi obiettivi sentendosi non un eroe donchisciottesco e solitario, ma un «normale» scienziato che fa il proprio lavoro in un sistema motivante e funzionale.

La Stampa 30.08.10

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“Cervelli italiani, tutti over 55”, di FLAVIA AMABILE

Dove sono i cervelli italiani che hanno meno di 55 anni? Non in Italia, di sicuro. A scorrere la prima classifica con nomi, provenienza e paese di destinazione lavorativa compilata dalla Via-Academy, associazione di accademici espatriati, c’è da riflettere molto sul futuro di ricercatori e scienziati del nostro Paese.

Su 400 nomi di grandi cervelli, in 268 lavorano ancora in Italia, circa 6 su 10. Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano quando si va a dare uno sguardo alla parte alta della classifica. La ricerca è stata appena completata, quindi i dati sono aggiornati in tempo quasi reale. I venti risultati più elevati sono divisi fra 29 scienziati, solo 11 lavorano in Italia, vale a dire circa 3 su 10.

Sono i cervelli italiani che ce l’hanno fatta senza fuggire, persone che hanno dato grandi contributi alle ricerche nel campo dell’immunologia o della ricerca sulle cellule. C’è uno dei più importanti nefrologi del mondo e chi ha fatto molto negli studi sul cancro. Hanno tutti più di 55 anni.

Non è così per chi è espatriato. Al quinto posto della classifica c’è Alex Sette, brillantissimo immunologo che da poco ha superato i cinquant’anni e già da tempo direttore del centro di Malattie Infettive di La Jola in California. Oppure al decimo posto c’è Pier Paolo Pandolfi, che addirittura di anni ne ha 47, è volato negli Stati Uniti subito dopo la laurea da ricercatore presso la Harvard Medical School di Boston, ed ha scoperto un nuovo metodo per combattere il cancro.

Altre storie, altre vite. Chi resta in Italia, lo sa. Farcela è più difficile, ma addirittura impossibile se si pretende di restare al Sud. I nomi nella parte alta della classifica lavorano a Milano, Genova, Padova e Torino. E non va molto meglio se si considera il totale dei cervelli rimasti in Italia: in classifica esistono solo due città meridionali. Napoli è all’undicesimo posto ma solo grazie alla presenza di altri centri di ricerca come Telethon e il Cnr. E Bari – dove esiste solo l’Università – è all’ultimo posto. Infatti per incontrare il primo cervello italiano che lavori al Sud bisogna superare altri 26 scienziati sparsi nel mondo o nel nord Italia, e per incontrare il primo che lavori in un’università meridionale bisogna superarne almeno 100.

L’idea di stilare la classifica è di Mauro degli Esposti, biochimico originario di Imola, dal 2003 insegna Molecular Toxicology all’Università di Manchester in Gran Bretagna. Insieme con Luca Boscolo, consultente informatico con molte esperienze internazionali, hanno preso in considerazione l’h-index, uno dei parametri più usati a livello internazionale per valutare ricercatori e scienziati sulla base delle pubblicazioni e citazioni ma anche con una piccola correzione sul tempo in modo da non favorire i più anziani. «non esiste alcuna analisi del genere finora, solo una classifica di università derivata dai dati CIRV2003 ed una più recente ristretta ad accademici di fisica – racconta il prof. Mauro Degli Esposti – I risultati del nostro lavoro sono aperti a varie interpretazioni. Il primo che balza agli occhi è che tutti – o quasi – i top dei top sono all’estero, una situazione veramente anomala per una nazione con tanti talenti».

La Stampa 30.08.10