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"La riscoperta di un telegiornale", di Curzio Maltese

Nella vita pubblica italiana c´è soltanto una cosa peggiore del teatrino della politica ed è il teatrino del giornalismo televisivo. Prevedibile, fatuo, servile, in mano da vent´anni a una casta d´intoccabili, i domatori del circo mediatico.
Quando vengono interrogati, hanno sempre una scusa pronta: non hanno tempo, soffrono di stress (questa parola orribile), sono preoccupati per la crisi economica, per la guerra in Afghanistan, per le prossime vacanze in Italia, per la salute della madre, per le prossime elezioni politiche, per una partita a bridge con il cugino; e se hanno più di un figlio, li accusano di essere incapaci di giocare, perché litigano incessantemente. Poi, come è naturale, qualsiasi cosa accada, «tutta la colpa è sempre della società».
L´inchiesta inglese rivela una condizione tremenda. Sebbene si proclamino intelligenti e progrediti, gli uomini del 2010 hanno perduto quella che Goethe chiamava «la natura originale» e Leopardi «il primo uomo». Hanno ucciso la loro anima infantile, che dovrebbe accompagnarli sino alla morte. Appena l´infanzia muore o si esaurisce in noi, si spegne l´immaginazione, il cuore, l´intelligenza, l´intuizione psicologica, l´estro, il gioco, l´eccentricità, la solitudine, la tenerezza, il divertimento. Diventiamo spettri lenti e tediosi. Non abbiamo più né amori né amicizie. Non riusciamo a respirare. Un cielo tenebroso si posa, plumbeo e soffocante, sopra il capo, e getta lampi di tenebre su tutte le occasioni della nostra esistenza. Non si vede per quale ragione dobbiamo continuare a vivere, se abbiamo completamente smarrito il senso e la luce della vita.
Soltanto se restiamo in qualche misura infantili, continuiamo a capire l´infanzia: ciò che è uno dei massimi doni dell´esistenza. Perché lì, in quelle risa e in quei pianti e in quei rossori e in quelle parole e affermazioni impossibili, si nasconde qualcosa che non appartiene al «qui»: soffia un altro tempo, un altro spazio, un´altra musica. Se non riusciamo a cogliere questo soffio siamo creature diminuite.
Così, dobbiamo moltiplicare i nostri rapporti con i bambini. Per esempio leggere ai figli «Pinocchio» e l´«Iliade» e «Alice nel paese delle meraviglie» e la storia dell´elefante nel fiume e le «Favole italiane» di Calvino: nostro figlio ci fissa, spaventato e divertito; e noi seguiamo sul suo volto l´aspetto sconosciuto che prende in lui il libro che conosciamo. Mentre ascolta, il bambino riflette in sé il padre e la madre: li fa rivivere in sé; è felice di avere una simile affinità con loro. Non c´è momento, forse, in cui padre e madre siano così prossimi al figlio.
La lettura finisce. Il bambino fugge, prende a scalare un albero o a scavare una fossa, come se volesse scostare da sé con un gesto il peso delle cose che ha appena ascoltato. Non riemergono più durante il giorno e sembra che se ne sia perduta ogni traccia. Ma vi sono degli istanti rivelatori. Prima del sonno o dopo il sonno, quando il bambino pare abbandonato a sé stesso, in certi lunghi pigolii – monologhi, dove la sua esperienza viene ripresa e riepilogata, ritornano sulla sua bocca i nomi dei libri: l´elefante si bagna di nuovo nel fiume, Patroclo viene pianto dal suo fratello di elezione, Pinocchio vola sulle ali del grande colombo, Alice attraversa lo specchio, i cinque italiani avventurosi compiono il loro viaggio picaresco verso Parigi. Tutto è stato adattato, trasformato e assimilato, fino a diventare irriconoscibile: le notizie che il padre e la madre hanno portato in dono dalle loro esplorazioni sono entrate a far parte di un destino che si tesse, oscuro ed insondabile, accanto a loro.
La forma narrativa che il bambino preferisce è semplice e concentrata: tende alla ripetizione, alla stilizzazione, al gioco geometrico, come le strutture lineari e ternarie della favola. Ma guai a supporre che ami la semplicità e l´ovvietà dei contenuti! Egli vuole conoscere cosa è il bene e il male, il padre e la madre: cosa è eroismo, viltà, rapidità, nascita, morte, caduta, protezione e avventura: quali sono i rapporti che stringono insieme le molte facce del mondo; e cerca invano di comprendere il numero e il tempo. A che gli servirebbero dunque i racconti senza sfondi e senza mistero? I libri che continua a pretendere dal suo lettore adulto sono le grandi storie simboliche, che rappresentano e intrecciano i destini umani, come l´«Iliade» e l´«Odissea», «Cenerentola», «La Bella e la Bestia», «Robinson Crusoe», «Pinocchio»: libri semplici, lineari e talvolta ingenui in superficie, ma complicati, polisensi e quasi esoterici nello sfondo, che ci suggeriscono centinaia di interpretazioni diverse, tutte egualmente vere. Non importa che egli ora afferri solo una piccola parte dei loro significati. Se lascerà depositare nella sua mente queste storie, se crescendo continuerà a consultarle e ad ascoltarle in se stesso come ora le ascolta dalla bocca degli altri, finirà per comprendere per quale ragione egli è insieme Achille ed Ulisse, Cenerentola ed Robinson, la Bestia moribonda e il mai nato burattino di legno.
Tra padre, madre e figli tutto può diventare gioco, perché lo spirito dell´infanzia si impadronisce di tutto. E niente insegna più dei giochi. Uno di questi, per esempio, è il «riassunto». Il padre e la madre leggono al figlio una storia; e il figlio la riassume per scritto. Il bambino impara a concentrare ciò che è diffuso: a dire con parole semplici ciò che è stato detto con parole mirabili: a insinuare i suoi pensieri in quelli di Omero e di Collodi; a fare il ritratto di Achille o della Fanciulla dai capelli turchini. Questo esercizio viene spesso trascurato nelle scuole italiane: eppure non c´è esercizio che insegni meglio a raccontare, e a esprimersi con parole proprie e precise.
Oppure c´è il gioco dei giochi: quello con le biglie sulla spiaggia. Non c´è nulla di più divertente: nulla che susciti in questo modo l´abilità, l´emulazione, la vanità, l´astuzia, l´accortezza. In primo luogo bisogna bagnare la sabbia con l´acqua di mare e renderla compatta: poi costruire la pista, più larga o più stretta, con curve amplissime, ponti, salite, abissi da varcare d´un balzo e perfide trappole. Infine, distesi sulla sabbia, spingere la biglia con un colpo secco del dito medio puntato sul pollice, con la giusta forza. Molto meglio se ci sono bambini di altre famiglie. E bisogna ricordarsi di una cosa. I bambini devono vincere quasi sempre: non si può togliere loro questo immenso piacere. Alcune ingiustizie possono essere tollerate. Ma, qualche volta, la biglia del padre o della madre deve arrivare per prima. Così accade nella realtà, dove vincono i grandi; e, sebbene i giochi appartengano al regno dell´immaginazione, debbono risvegliare, all´orecchio del bambino, almeno un´eco lontana del mondo reale.

La Repubblica 02.09.10