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"Napolitano: Europa, più coraggio", di Dino Pesole

Parla di Europa, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e dell’assoluta necessità che il Vecchio Continente proceda con passo spedito e con unità di intenti nell’affrontare la sfida che la crisi lascia in eredità a tutti i governi: quella con la crescita e l’occupazione.
Per il quarto anno consecutivo, Napolitano raccoglie le sue riflessioni sul futuro dell’economia europea e nazionale in un messaggio trasmesso in videoconferenza dal Quirinale al workshop Ambrosetti di Cernobbio. Tradizionale e qualificato appuntamento in cui economisti, imprenditori, banchieri, politici e ministri si confrontano sulle sfide e gli scenari globali, europei e nazionali dell’autunno. L’enfasi sulla necessità che l’Europa imbocchi senza indugi la strada di una più compiuta integrazione politica e istituzionale è tutt’altro che casuale. Proprio domani e martedì i ministri delle Finanze si riuniranno a Bruxelles in un vertice straordinario, chiamato a riscrivere, nell’ambito della task force guidata dal presidente permanente dell’Unione, Herman Van Rompuy, gli assi portanti del nuovo patto di stabilità e di crescita. Oltre la soglia del 60% nel rapporto debito-Pil, si terrà conto anche di vari «parametri di sostenibilità», all’interno di una nuova accezione di debito aggregato che includa l’indebitamento privato (famiglie e imprese), da noi tradizionalmente più contenuto.
Alla Germania in primo luogo, e alle sue persistenti tentazioni di premiership in Europa, Napolitano ricorda che di fronte agli effetti della crisi globale, nessun paese può ritenere a torto o ragione di farcela da solo. «Soltanto parlando con una sola voce e portando avanti una politica estera e di sicurezza comune, e il trattato di Lisbona finalmente entrato in vigore ce ne offre gli strumenti, l’Europa può contare nella politica internazionale». Nessuno stato europeo, «neppure i più ricchi e quelli con tradizioni persino imperiali» può contare solo sulle proprie forze. Certo – ammette Napolitano – si tratta di un realtà che può apparire sgradevole. La Germania, con la sua ottima performance sul fronte della crescita e della competitività, potrebbe anche valutare questo reiterato appello alla maggiore convergenza delle politiche economiche come una sorta di ostacolo. Ma non vi è alternativa. Napolitano parla da europeista convinto di lungo corso, che non vede in giro per l’Europa un pericolo di «morte imminente, ma un difetto di visione e di coraggio. Continuo ad essere razionalmente un credente nell’Europa».
Ecco quel che serve all’Unione, non certo il replicarsi degli squilibri emersi nel corso della gestione della crisi «con andamenti divergenti» non solo delle politiche di bilancio ma anche delle politiche economiche nazionali. È la conseguenza della resistenza messa in atto dalle leadership nazionali «ad un effettivo, stringente coordinamento a livello europeo». Occorre per questo una nuova generazione di leader europei, naturale effetto di una vasta mobilitazione della società civile e della società politica.
Stabilità finanziaria, garantita dalle nuove regole in arrivo sul fronte dei conti pubblici, ma soprattutto massima concentrazione degli sforzi in direzione dello sviluppo, evitando al tempo stesso i rischi di deflazione: il compito che attende l’Unione è impegnativo, ma la strada è tracciata. Entro fine anno, sono attesi i piani nazionali di riforme e una nuova politica industriale «per la quale dovrebbe prepararsi anche l’Italia». Napolitano ne è convinto: «Più saremo franchi e crudi con noi stessi più potremo farcela».
Il caso della Grecia docet, ma proprio la crisi di uno dei paesi più deboli di Eurolandia ha messo in luce che, nonostante i ritardi, la terapia ha funzionato. Al presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, Napolitano dà atto di aver saputo tenere «la barra del timone dritta nelle tempeste della crisi globale, senza perdere di vista l’esigenza della crescita».
Quanto alle riforme da mettere in campo, occorre rafforzare le regole del mercato interno «che hanno corso qualche rischio, anche di ripiegamento protezionistico se non nazionalistico». Il percorso è indicato dal rapporto Monti, «lavorando in modo particolare ad aprire alla competizione l’area dei servizi rimasta abbastanza al riparo dall’unificazione che via via, nel corso dei decenni, si è compiuta in altre sfere del mercato e dell’attività economica». In una parola, più concorrenza.
Infine, un saluto particolare al presidente israeliano Shimon Peres: «Sono sicuro che potrò, tornando in Israele, già trovarmi di fronte a una evoluzione positiva dello straordinario impegno che si sta mettendo in atto per dare finalmente un assetto pacifico a quella tormentata area del Medio Oriente».

Il Sole 24 Ore 05.09.10

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“Cari americani, siamo ancora vivi”,di Giuliano Amato

Sembrerà un’astrazione ai tanti che si stanno dedicando a temi come la riforma elettorale, sprovvisti (almeno per ora) di qualunque attualità. A me invece il dibattito sull’Europa tenuto vivo in questi giorni dal Sole 24 Ore è parso un essenziale richiamo alla realtà. Quanto più sono esposti a rischi la nostra economia, i nostri posti di lavoro e i nostri conti pubblici, tanto più dovrebbe starci a cuore lo stato di salute del contesto europeo, che è il gancio a cui siamo attaccati. E se il gancio dovesse cedere, saremmo fra i primi ad andare a rotoli.
Ebbene, pochi mesi fa era stato il direttore del Council for Foreign Relations, Richard Haas, a scrivere Cara Europa, il XXI secolo non ha più bisogno di te (così titolava il suo articolo proprio Il Sole 24 Ore il 14 maggio scorso). Pochi giorni fa, un altro osservatore americano, quel Charlie Kupchan che in un libro recente aveva indicato nel XXI secolo il tempo dell’Europa, ha scritto a sua volta “Vecchia Europa, il tuo tempo è finito” (Il Sole 24 Ore, 1° settembre) parlando di una «morte lenta e prolungata» della nostra Unione. Ma che cosa ci sta succedendo, se è così che ci vedono dagli Stati Uniti? Siamo davvero a questo punto?
L’analisi così impietosa dei nostri amici americani è mossa da un dato di cui siamo noi stessi consapevoli, il vigore crescente dei nazionalismi e delle domande politiche interne rispetto alle ragioni comuni. In più, essi misurano la forza dell’Europa in primo luogo nella politica estera, e questo è proprio il terreno su cui la nostra azione comune è più embrionale e il peso degli stati nazionali è tuttora preminente. Anche di ciò siamo consapevoli, così come sappiamo che nelle stesse vicende economiche, dove – e lo vedremo – si è preso a fare ben di più, i ritardi con cui ci siamo mossi e il ruolo giocato dalle questioni (e dalle visioni) interne tedesche hanno colpito i nostri interlocutori, oltre a creare vistose divergenze fra noi e gli Stati Uniti.
Sono valutazioni critiche che non possiamo negare, al contrario – come dicevo – le condividiamo noi stessi. Quello che mi chiedo, però, è se esse portano davvero al cuore del problema che ha l’Europa di oggi e se aiutano a scorgere la soluzione, che pure comincia a delinearsi. I nazionalismi – è vero – ci sono e si sono accentuati, ma alla fin fine non sono una novità, c’erano anche prima e anche in passato ci hanno fatto attraversare dei brutti momenti. Né sono una novità i leader non smaglianti, perché neppure in passato abbiamo sempre avuto leader smaglianti.
Il fatto è che dal trattato di Maastricht in là, da quando decidemmo cioè che l’economia e gli affari esteri rivestivano sì un interesse comune, ma per realizzarlo ci saremmo limitati a coordinare le nostre politiche nazionali, ai nostri leader non è stato mai chiesto nulla più che un tale coordinamento: e quindi non l’adozione di politiche e di misure davvero europee, ma l’adozione di politiche e di misure nazionali, reciprocamente compatibili e compatibili con gli obiettivi comuni. Solo di recente e solo davanti all’incombere di una crisi che ha messo in discussione la stabilità dell’euro abbiamo dovuto accorgerci che questo sistema non aveva dato i frutti sperati e tanto meno ci sarebbe servito in un frangente così difficile.

Per i nostri nazionalismi diventava improvvisamente ineludibile produrre ciò che mai era stato chiesto loro di produrre, politiche e misure davvero europee. È stato a questo punto che essi, prima ben più rilassati fra le ampie pieghe del precedente vestito europeo, si sono trovati alle strette e sono venuti in piena luce come un ostacolo per la vitalità stessa dell’Unione. Un ostacolo che ad alcuni è parso insormontabile, quando la torsione nazionalista è stata percepita anche in Germania. Un tempo motore dell’integrazione, essa aveva ora un cancelliere che sembrava più sensibile ai suoi elettori che alle ragioni europee e una Corte costituzionale che, pur “assolvendo” il trattato di Lisbona, poneva paletti invalicabili all’integrazione e se stessa a guardia dei paletti.
Se questa è la novità in cui ci siamo trovati, però, è certo vero che gli interessi nazionali hanno avuto davanti ad essa una visibile impennata. Ma non è meno vero che non hanno impedito l’adozione di politiche e misure europee in un ambito nel quale non si era mai andati oltre il coordinamento di politiche e misure nazionali. È stato adottato in maggio un vero e proprio regolamento per dotare l’Europa di un meccanismo di stabilizzazione nel settore finanziario e un altro regolamento andrà martedì all’approvazione dell’Ecofin per l’istituzione di autorità europee di vigilanza nello stesso settore. Non è molto, ma gemendo e scricchiolando i nazionalismi stanno aprendo i primi spiragli verso soluzioni europee per questioni che non le avevano mai conosciute.
Forse lo fanno perché la necessità è più forte di loro. Ma forse non sono tutti chiusi come li si è dipinti. Prendiamo proprio la Germania. Giovedì scorso Carlo Bastasin ha ricordato giustamente su questo giornale il discorso tenuto dalla Merkel ad Aquisgrana il 13 maggio (Il XXI secolo può ancora essere il secolo europeo). Mentre dobbiamo tutti quanti prender nota della sentenza con la quale il 27 agosto la Corte costituzionale tedesca, guidata dal suo nuovo presidente, il quarantatreenne Andreas Vosskuhle, ha fortemente corretto la precedente decisione sul trattato di Lisbona, manifestandosi nuovamente aperta al diritto dell’Unione e ai suoi possibili sviluppi.
Nonostante tutto, siamo ancora in carreggiata. Dove rischiamo di uscirne è caso mai nelle politiche economiche che seguiamo, a partire proprio dalla Germania. Ha ragione Padoa Schioppa, intervistato venerdì su questo giornale, a sostenere le ragioni di una crescita equilibrata e di consumi meno elevati di un tempo. Ma può la Germania continuare a vivere sulle esportazioni (Philip White, del Centre for European Reform, invita il 2 settembre a valutare con cautela il recente aumento dei consumi tedeschi, dopo la loro prolungata caduta)? E possono gli altri europei seguirla sulla stessa strada, tenendo tutti bassa la domanda interna a spese, evidentemente, di disavanzi commerciali altrui? Insomma, va bene un’Europa più tedesca nell’equilibrio dei conti, e magari anche nella produttività, ma non va bene un’economia europea che aggrava gli squilibri del mondo. Per evitarlo, e per evitare che la stessa Germania rimanga prigioniera di sé, sono ancora misure europee a servire; misure d’integrazione del mercato e d’investimento, che senza rischi per i conti pubblici dinamizzino la crescita del nostro continente e gli stessi consumi interni.
L’Unione Europea è ancora viva e gli amici americani, anziché dichiararla defunta, la richiamino alle responsabilità che le spettano. Toccherà a noi allargare gli spiragli verso il futuro che abbiamo cominciato ad aprire.

Il Sole 24 Ore 05.09.10