attualità, politica italiana

"Quei "pezzi" che perde il Cavaliere", di Michele Brambilla

È azzardato cercare qualche punto in comune fra il botto che ha provocato Gianfranco Fini e quello che ha ottenuto il nuovo tg di Enrico Mentana? Forse no. E vediamo di capire perché.
Fino a qualche tempo fa i due appartenevano in qualche modo all’universo berlusconiano. Il primo, dopo una vita passata in quell’angolo in cui era relegato il neofascismo italiano, fu sdoganato nel 1993 con una battuta che è il vero esordio politico di Berlusconi («Se fossi un cittadino romano voterei Fini sindaco»). Dopo di che, per sedici anni Fini è stato per il Cavaliere un alleato fedele: per certi versi ancora più fedele di Bossi, visto che mai si è presentato alle politiche da solo (a differenza della Lega); e visto che meno di tre anni fa ha accettato di sciogliere il suo partito, An, per fondersi con Forza Italia.

Il secondo, Mentana, dei giornalisti delle aziende di famiglia non è mai stato uno dei più zelanti adulatori del capo: ma neppure si può dire che sia stato frondista, o men che meno infedele. Dal nulla, ha fatto del Tg5 un grande tg, regalando alla macchina mediatica di Berlusconi un formidabile strumento.

Adesso tutti e due se ne sono andati. Un po’ se ne sono andati e un po’ sono stati cacciati, mettetela come volete. In ogni caso, sono due «pezzi» importanti che il Cavaliere ha perso. Come è potuto succedere?

I berlusconiani più fedeli non hanno dubbi. Per loro la spiegazione è semplice: Fini è un ingrato e un traditore che se n’è andato in cerca di gloria personale; e Mentana è sempre stato, in realtà, «uno di sinistra».

Naturalmente ogni opinione è lecita. Ma come non riflettere su quanti «pezzi» ha ormai già perso il Cavaliere? Nessuno dimentica quella vecchia foto in cui sul palco della Casa delle Libertà Berlusconi era a fianco di Fini e Casini; ora è rimasto solo. Fini e Casini se ne sono andati, così come anni prima se n’era andato Montanelli prima ancora di cominciare, e così come poi se ne sono andati i professori arruolati per dare spessore e programma a Forza Italia, e così come appunto se n’è andato Mentana. Anche Giuliano Ferrara e forse Gianni Letta sono meno ascoltati di un tempo. Contemporaneamente sembrano essere andate via via ingrossandosi le file di consiglieri, collaboratori e parlamentari, insomma di tutta una schiera di fedelissimi che senza offesa non paiono dotati né di autonomia, né di grande acume, quasi a conferma di quel sempre ricorrente vizio che a un certo punto prende molti uomini di successo: il vizio di circondarsi di figure nelle quali l’accondiscendenza conta più del talento. In parallelo, sono diventati più schierati e soprattutto più aggressivi i media che in qualche misura sono riconducibili al premier.

Dire che chi se n’è andato è un traditore, sedotto dalla sinistra, è una risposta ricorrente nel mondo berlusconiano. Ma a parte il fatto che se così fosse si tratterebbe di un singolare caso di salita sul carro degli sconfitti, non è mai diventato di sinistra Montanelli, non lo sono diventati i «professori», non s’è alleato con la sinistra Casini. E nonostante certe battute, con la sinistra non passa Fini, che anzi a Mirabello ha rispolverato icone e citazioni da vecchio Msi. E non fa certo un tg di sinistra, a La7, Enrico Mentana.

Tanti abbandoni sono piuttosto il sintomo, forse, della delusione di tutto un mondo moderato che comincia a considerare non mantenuta quella promessa di «rivoluzione liberale» (meno tasse, Stato più leggero eccetera) e che comincia a essere stufo di un’informazione e una politica fondate più sullo scontro e sulle contumelie che sui contenuti. Sarebbe un grave errore pensare che quelli di Fini e di Mentana siano solo casi di una personale revanche. Il successo che i due stanno ottenendo in questi giorni (nonostante certe battute su «percentuali da prefisso telefonico», i sondaggi danno Futuro e Libertà attorno al sei per cento; e Mentana ha portato il Tg di La7 dal 2,5 al 10 per cento di ascolti) ci dicono invece che c’è un popolo che non ci sta più al gioco dell’«o di qua o di là», e che vorrebbe qualcosa di nuovo dalla politica e dall’informazione. Ci dicono, insomma, che forse qualcosa sta cambiando davvero.

La Stampa 07.09.10