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"L´insostenibile declino di chi deve educare il Paese", di Domenico Starnone

Non è mai esistita un´età dell´oro dei docenti presso l´opinione pubblica. I luoghi comuni sono di antica data e duri a morire, ma nascono dai problemi reali irrisolti. È rimasto insoluto per oltre un secolo il problema della convivenza tra la concezione elitaria della cultura e la necessità della scolarizzazione di massa. Le polemiche sui tagli alla scuola e le proteste dei professori precari riportano d´attualità la questione della qualità dell´istruzione in Italia.

C´è un libro che si chiama Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal. Si rivolge agli insegnanti di scuola media di inizio secolo (quelli che Papini partendo da “scuola media” aveva battezzato mezzani). La scuola è rappresentata come luogo di conflitto con gli alunni («il primo e più arduo problema è mantenere la disciplina», ci sono «professori che non oserebbero salire in cattedra una sola volta, senza quel fido compagno che è il registro») ; i docenti si interrogano per capire se sono miserabili impiegati (allora c´era anche chi li chiamava impiagati) o qualcosa in più; si ammette che «non tutti gli insegnanti sono cime»; si racconta la battaglia dura dei professori “rigorosi” contro quelli “lassisti”; si accenna alle piccole corruzioni, al mercato delle lezioni private (prezzo d´epoca: venticinque lire; lo stipendio di un docente era centotrentasei lire; con mille lire ci si poteva comprare sottobanco la licenza); si sottolinea l´avversione dei docenti per la pedagogia e per ogni didattica; si tratteggia l´ottusità degli ispettori ministeriali e, in un´epoca in cui non c´erano la tv e internet, si lancia persino il seguente grido d´allarme: «i giovani non leggono più nulla». Di conseguenza Provenzal così arringa i suoi colleghi: «Se appena puoi cavartela col solo stipendio, segui il mio paterno consiglio: fa´ poche ore di lezione e in quelle che ti rimangono libere, studia, leggi, scrivi, passeggia, vivi la vita di tutti gli altri uomini e fuggi lontano dalla scuola quanto più è possibile».
Questo libro è del 1921, in quell´anno era alla terza edizione.
Ce n´è un altro che si chiama Gli insegnanti bocciati, è di Evaristo Breccia. Non si rivolge ai professori ma sostanzialmente alle famiglie. Breccia, dopo aver spulciato negli elaborati degli insegnanti che hanno fatto concorsi a cattedra e sono stati bocciati, si dà da fare per dimostrare al suo pubblico che dall´università viene fuori gente di inimmaginabile ignoranza, che i docenti che non sono mai riusciti a superare un concorso insegnano tranquillamente da anni mentre invece andrebbero licenziati, che l´intero ingranaggio della pubblica istruzione è ormai privo di affidabilità.
Questo libro è del 1957, in quell´anno era alla settima edizione. Rispetto a Provenzal rincara la dose: se la prende con tutti gli insegnanti non di ruolo; bravi per lui sono solo quelli che hanno vinto un concorso: via i precari.
Cito questi due libri a mo´ d´esempio, per ricordare che forse non c´è mai stata un´età dell´oro dei docenti, presso l´opinione pubblica. Li cito anche per sottolineare che la crisi della figura del professore non ha inizio col fatale 1968, come il senso comune ripete di continuo, ma ha una lunga storia alle spalle che si può ripercorrere utilmente attraverso la pubblicistica, i romanzi, il cinema (ve li ricordate i professori di Fellini?) e la televisione. Li cito infine perché sono utili per segnalare che i luoghi comuni sulla categoria sono di lunga data, e se sono così duri a morire significa, anche quando sono beceri, che segnalano problemi seri irrisolti.
Voglio dire che la vecchia concezione elitaria degli studi non ha mai fatto veramente i conti, lungo tutto il Novecento, con il problema del diritto allo studio di tutti. Voglio dire che il docente è stato sempre più lasciato solo, dentro strutture inadeguate, con mezzi inadeguati, con una formazione inadeguata, a fare un lavoro mai veramente ed efficacemente ripensato in funzione dell´ostacolo degli ostacoli: la diseguaglianza naturale ed economico-sociale. Voglio dire che un lavoro durissimo, esposto in linea di massima sempre al fallimento (chi insegna con onestà sa che un´istruzione di qualità per tutti è nel migliore dei casi una spinta ideale contraddetta dalla brutalità dei fatti), è stato continuamente umiliato innanzitutto dallo scarsissimo credito che la politica gli ha assegnato, a partire dal momento in cui i docenti non sono più risultati un serbatoio affidabile di voti, e poi dalla sostanziale caduta del valore del titolo di studio. Voglio dire che negli ultimi trent´anni una scuola sempre più povera fatta da docenti sempre più poveri, se l´è dovuta vedere con lo strapotere delle immagini, con il tramonto della cultura del libro, con la perdita di autorità di una serie di profili professionali prima autorevoli che lavoravano con la scrittura, con strumenti tecnici e figure professionali nuove di una potenza formatrice non comparabile con quella della vecchia cattedra.
Concluderei perciò così: la crisi del docente, pensato come formatore di élites, è di vecchia data e comincia con gli albori della scuola di massa; sottoposto a due spinte divergenti (selezionatore autorevole e scontroso di classe dirigente o artefice sempre disponibile di un´istruzione qualitativamente alta per tutti), lasciato solo di fronte a problemi che non poteva risolvere da solo, è finito in stato di stallo, vale a dire nell´impossibilità di tornare alla vecchia funzione di selezionatore classista e, insieme, nell´impossibilità di lavorare in una scuola in grado di assicurare davvero il diritto di tutti a un´istruzione elevata. Crocifisso dunque alla storica incapacità (o impossibilità) della politica e della società civile di reinventare la scuola, oggi l´insegnante è una figura al tramonto, in tragico declino come tante altre figure intellettuali dell´era predigitale? Sì, se si continua a non muovere un dito. O a muoverlo malissimo, aggiungendo danno al danno, e naturalmente spaccando il centesimo.

La Repubblica 09.09.10

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“La vera lotta di classe”, di Marco Lodoli

È naturale che un uomo di oltre cinquant´anni non capisca una ragazzina di quindici. I film che vedo, la musica che ascolto, per loro non esistono. Hanno tagliato i ponti con gli adulti

L´esperienza di un professore dopo trent´anni

Lunedì comincerò il mio trentesimo anno di insegnamento: era il 1980 quando entrai per la prima volta in classe e ricordo ancora bene quella lezione, preparata con cura e spavento, sul viaggio ultraterreno di Dante ma più in generale sul viaggio nella letteratura. In un´ora passai da Don Chisciotte a Pinocchio, da Rimbaud a Kerouac, dal Sorpasso a Pollicino, con una smania infinita di spiegare, di emozionare.

Avevo ventitré anni, leggevo dalla mattina alla sera, speravo che nei libri ci fosse tutto ciò che mi mancava: e quello che trovavo, subito lo comunicavo ai miei studenti, come un bene prezioso da condividere. Ero convinto che la bellezza, la poesia, la ricerca di senso riguardassero tutti gli adolescenti del mondo: che serve avere sedici se non si guarda in alto? Così mi dicevo, ma in realtà neanche me lo dicevo: ne ero certo. I ragazzi ascoltavano la musica che piaceva anche a me, i Talking Heads, i Cure, gli Smiths, i cantautori italiani, parlavano di calcio e di politica e di niente, e io li capivo. Insegnavo anche alle serali, a giardinieri più vecchi di me, e dopo aver letto una poesia di Pascoli o un racconto di Cechov ne parlavamo insieme, avevamo una lingua comune per scambiarci opinioni, anche per litigare. E gli anni, una settimana dopo l´altra, sono passati. Io ero sempre l´insegnante giovane, scapigliato, quello con la Vespa anche se diluvia, quello con i jeans bucati e persino con i dread, per un certo periodo. Per me capire i ragazzi era facile, anche se cambiavano i gruppi musicali, i film al cinema, i modi di vestirsi – come fosse sempre primavera. Qualche volta mi ritrovavo alunni o ex-alunni alle presentazioni dei miei libri, e loro erano orgogliosi di me e io di loro, ci davamo qualche pacca sulla spalla, imbarazzati, contenti.

Ora tutto è cambiato. È ovvio che sia così, mi dico, è normale che un uomo di cinquantatré anni non capisca una ragazzina di quindici. Metto le mani sul vetro, cerco di sbirciare, ma è tutto appannato, non si vede niente. Ai ragazzi parlo di letteratura, ma ormai è una lingua perduta, come il latino o l´aramaico. Parlo anche di cinema e di musica, ma i film che io vedo per loro non esistono, la musica che ascolto è muta. Non c´è alcuna contestazione, nessuno pensa che io sia in torto, che difenda chissà quale ordine infame: semplicemente questi ragazzi hanno tagliato i ponti con gli adulti. Prima la barca era una sola, ci si stava sopra tutti insieme, magari cercando di buttare di sotto i nemici: ora ogni generazione ha la sua scialuppa di salvataggio. Il marketing ha diviso la società in target. Ciò che interessa un trentenne non interessa un sedicenne. I miei studenti di periferia ascoltano i cantanti neomelodici napoletani, i rapper autoprodotti di Tor Bella Monaca, odiano il cinema perché bisogna stare due ore zitti e al buio, non fanno sport, chattano, passano il sabato nei centri commerciali. Ho alunni che spediscono trecento sms al giorno, tranquillamente. E allora uno ci prova ancora: On the road e Cervantes, i boschi dei fratelli Grimm e la selva oscura, il viaggio dietro a Moby Dick, la fuga di Gauguin fuori dal mondo, ma ascoltano in pochi, forse in certi momenti proprio nessuno, e così a tanti insegnanti viene lo scoramento. Perdiamo gli alunni e acquistiamo montagne di carte da riempire, labirinti in cui confondersi.

Trent´anni di disprezzo per la cultura – roba da poveracci, da infelici – hanno portato a questo: a un paese povero e infelice. Ma io non mollo, continuo a indicare ai miei studenti un punto più in alto, dove l´aria è migliore, dove si vede meglio il mondo.

La Repubblica 09.09.10

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“Il cuore oltre la cattedra”, di Chiara Saraceno

Nonostante le condizioni difficili e il rapporto sempre più complesso e complicato con i genitori ci sono tante persone che continuano a dare lezioni importanti, lavorando con passione nella scuola
La dedizione quotidiana di tanti docenti
Collocati sulla prima linea dei mutamenti familiari, culturali, sociali, gli insegnanti hanno sperimentato negli ultimi trent´anni un progressivo processo di declassamento: sul piano della remunerazione e su quello del prestigio sociale, accompagnato da una carenza di investimenti nella loro formazione. Quest´ultima negli ultimi anni è stata oggetto di riforme successive che si sono limitate a vanificare quelle precedenti e senza seguito sul piano del reclutamento. Quanto all´aggiornamento, quando non rappresenta un semplice strumento per aumentare il proprio punteggio a fini di carriera o mobilità, è per lo più a carico degli insegnanti e dei loro modesti stipendi. E non vi è nessun riconoscimento del lavoro, oltre che delle competenze, aggiuntivo richiesto dall´insegnamento nelle situazioni più problematiche. Tutto è affidato all´impegno individuale dell´insegnante, per altro spesso costretto, insieme ai suoi allievi, a lavorare in situazioni, anche ambientali, indecorose: scuole fatiscenti e insicure, aule cui mancano talvolta anche gli arredi essenziali, laboratori, ed oggi anche aule, sovraffollati, dotazione ridicola.
Non può stupire che i primi ad accorgersi di questo declassamento sono proprio gli studenti. La mancanza di rispetto che molti docenti lamentano non deriva solo dalla loro incapacità a farsi valere come autorevoli in forza della propria competenza sia disciplinare che relazionale. Deriva innanzitutto dalla immagine sociale del loro lavoro che viene restituita dal modo in cui sono trattati loro e la loro professione, dalla scarsità degli attrezzi – culturali e materiali – di cui vengono forniti per il loro mestiere. Senza che per altro siano sempre capaci, come individui e come organizzazioni, di reagire in un modo che vada al di là delle pur importanti rivendicazioni stipendiali o della difesa di diritti acquisiti. Le responsabilità sono molte e non solo recenti. Sembra che un insegnante sia destinato ad essere vuoi un eroe, che tutti i giorni scende nell´arena a fronteggiare una torma di sadici o di indifferenti, da cui difendersi e contemporaneamente sedurre, coinvolgere, oppure un impiegato della lezione, che fa le sue ore, cercando di attraversare la giornata e l´anno senza incidenti, giocando al ribasso per non esporsi a reazioni – degli allievi, ma anche dei genitori. Perché la, per altro giusta, caduta dal piedistallo dell´insegnante-Dio, le cui decisioni erano insindacabili e il potere sulla classe assoluto, è seguita non solo la legittima possibilità di argomentare le proprie ragioni, ma anche la squalifica tout court delle decisioni dell´insegnante se queste non piacciono agli allievi che ne sono oggetto e/o ai loro genitori. Come se la scuola fosse diventata il terreno di rapporti di forza, ove al sadismo e alla prepotenza di qualche insegnante si contrappongono quello degli studenti a volte spalleggiati dai genitori, dove la comunicazione è difficile e la fiducia reciproca scarsa.
Certo, la situazione media non è così drammatica, soprattutto per merito dei molti insegnanti che si arrabattano a far quadrare tutto e suppliscono a ciò che manca con la loro passione. Ma l´eroismo e l´altruismo degli insegnanti non possono essere la risorsa principale su cui conta una società per la formazione dei propri figli, tanto più se ogni giorno si impegna a squalificare e rendere difficile il lavoro alle stesse persone da cui si aspetta dedizione, competenza e, appunto, altruismo.

La Repubblica 09.09.10