attualità, politica italiana

"Dalle auto blu alla Parentopoli il Carroccio scopre il virus del potere", di Filippo Ceccarelli

Ma dopo tante storie e dopo tante chiacchiere, dall´ampolla dell´acqua santa ai 109 allevatori che non vogliono pagare le multe, dalle ronde con i cani feroci ai giretti in autoblù, ecco, non sarà che nel frattempo i leghisti sono diventati come tutti gli altri?
Rapida trasformazione, davvero, il potere fa di questi scherzi. L´altro giorno è venuto fuori che nella giunta di Cota, che doveva passare come la grande moralizzatrice del costume in Piemonte, c´è già un bel viavai di parenti a contratto: assistenti, consulenti e collaboratori di belle speranze pure incrociati secondo le logiche dello scambismo istituzionale, cioè la moglie dell´assessore che lavora con l´altro assessore, la cui compagna risulta nello staff del primo e così via, secondo un complesso sistema inaugurato dagli europarlamentari dc a Strasburgo nei primi anni ottanta.
Sono cose che succedono: ma in Italia, altro che Padania! Appena eletto, il presidente del Consiglio del Friuli Ballaman proclamò che per abbattere i costi della politica avrebbe rinunciato alla macchina di servizio. Bene, il mese scorso s´è scoperto che la utilizzava con tale intensità da mandare addirittura a prendere la nonna e lo zio della fidanzata (poi moglie) all´aeroporto. Quando Ballaman si è dimesso, anche dalla Lega, era però troppo tardi.
Anche in Emilia, terra di sfondamento, i padani non solo scivolano pure loro sulle autoblù, ma beccano anche un sacco di contravvenzioni. Una settantina. Così l´onorevole Alessandri, reggiano, presidente della Commissione ambiente, ne ha messe parecchie in conto al partito, per giunta spiegando che gli eccessi di velocità e i divieti di transito si giustificavano per «spostamenti istituzionali urgenti». E anche qui c´è da notare che i notabili dc di una volta avevano più orgoglio e fantasia, vedi l´indimenticabile Gaspari che accusato di affollata trasferta in Scandinavia disse che lassù «si mangiava anche male».
E gli appetiti delle banche, i conticini correnti ministeriali nella Popolare di Lodi, a suo tempo chiamata a coprire i buchi dell´alacre cialtroneria imprenditoriale leghista perdutasi appresso a villaggi vacanze falliti, casinò mai aperti, sale Bingo chiuse, Credieuronord andata a gambe per aria. Hai voglia con gli spadoni, gli elmi celtici e i figuranti vestiti da crociati, il potere è una malattia che dà alla testa. E´ ingiusto e sbagliato generalizzare, ma in Lombardia c´è un consigliere che aveva fatto amicizia con le persone sbagliate, mafiosi, e dalle parti di Vicenza un assessore alla Sicurezza ha avuto guai per sfruttamento della prostituzione.
Il paesaggio leghista appare sempre famigliare: all´italiana. Familismi, esibizionismi, piaggerie e civetterie da nuovi potenti, la blindatura elettorale del principino Trota, subito dotato di aspirante starlette e amicizia con il presentatore Merola; il premio «Zoccolo d´asino» per celebrare l´eroica ostinazione di Calderoli; i concerti di beneficenza e le Mille miglia in costume per Maroni (come Prandini, a suo tempo, e poi Cesarone Salvi); gli aerei dell´Aeroclub dedicati ai ministri del Nord, i finanziamenti per la scuola padana della signora Bossi, la laurea honoris causa, la coppa veneziana dei re e il quadro di Pontida (20 mila euri) per l´Umberto; i magheggi a Miss Italia e la ricca fiction sul frate che ha fermato i turchi. Pure la festa romana per le vacanze, a villa Aurelia, dove si sposano quelli del «generone». Ed è come un virus che si fa sempre più strada.

La Repubblica 10.09.10

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“Ma la Lega è ancora federalista?”, di LUCA RICOLFI

E’ un po’ che me lo chiedo: la Lega è davvero interessata al federalismo?
I primi dubbi li ebbi un paio di anni fa, quando venne varata la legge sui servizi pubblici locali. Da un partito che vuole eliminare gli sprechi e le inefficienze nella pubblica amministrazione mi aspettavo scelte assai più radicali in materia di concorrenza, e invece la Lega frenò lasciando passare una legge piuttosto timida. Un parlamentare lombardo della Lega mi spiegò poi perché: è vero che facendo gare aperte si possono ottenere tariffe più basse per i cittadini, ma il rischio era che gli appalti li prendessero aziende straniere, con tanti saluti alle ditte e dittarelle locali. Per questo la Lega scelse di frenare.

Poi, quando si cominciò a parlare di manovra e di sacrifici, e qualcuno propose di abolire le «Province inutili» (uno degli impegni del centrodestra in campagna elettorale), fu di nuovo la Lega a frenare.

Se la proposta fosse passata, sarebbero state soppresse anche alcune Province del Nord, con tanti saluti alle poltrone di un buon numero di amministratori leghisti. Di qui lo stop: il provvedimento venne stralciato e messo in un binario morto.

Un altro dubbio mi venne la primavera scorsa, quando la sacrosanta protesta dei sindaci del Nord contro i vincoli del patto di stabilità ebbe ad incontrare la sorda ostilità dei dirigenti nazionali del Carroccio. Ma il dubbio più grande lo ebbi in occasione della recente manovra estiva, fondamentalmente basata su tagli «lineari» (eguali per tutti) a Regioni, Province e Comuni. Da un partito federalista mi sarei aspettato una dura battaglia per distribuire i tagli in modo da premiare i territori virtuosi e punire quelli spreconi, se non altro perché per un’amministrazione che ha già tagliato è molto più difficile continuare a farlo. Invece, nonostante qualche timido tentativo del governatore del Piemonte Roberto Cota, la Lega si defilò, lasciando passare un maxi-emendamento che permetterà ancora una volta di rimandare un intervento incisivo e selettivo sugli sprechi.

Negli ultimi giorni però i miei dubbi e le mie perplessità stanno diventando delle quasi-certezze. C’è una crisi di governo, l’eventualità di andare alle urne già in autunno è molto concreta. Contrariamente a quanto affermano diversi esponenti della Lega, il federalismo non è affatto al sicuro. Non tanto perché diversi decreti delegati devono ancora essere emanati, ma perché anche i decreti delegati sono impostati senza numeri, sono scatole vuote che indicano alcuni meccanismi e soggetti che dovranno attuare il federalismo, ma lasciano del tutto aperti i due punti centrali: quanto dovranno risparmiare le varie amministrazioni, quanta evasione fiscale andrà recuperata in ogni territorio. Detto brutalmente, i decreti delegati sono a loro volta più somiglianti a ulteriori leggi-delega che a norme dotate di un contenuto macroeconomico preciso e vincolante. E dal momento che la base tecnico-statistica per attuare il federalismo fiscale non esiste ancora (né potrebbe essere diversamente, perché una classe politica irresponsabile ha passato quindici anni a discutere di principi, e quasi nulla ha fatto per renderli concretamente attuabili), ci vorranno ancora almeno un paio di anni per far partire il federalismo e per cominciare a capire come esso verrà effettivamente attuato.

Ebbene, in questa situazione la Lega non si preoccupa di attuare il federalismo, ma di tornare al voto al più presto. E racconta ai suoi ingenui elettori che il federalismo è al sicuro, è «in cassaforte», perché nelle prossime settimane verranno approvati gli ultimi decreti delegati. Non è così. I decreti delegati, anche se riuscisse il miracolo di approvarli tutti prima dello scioglimento delle Camere, saranno inevitabilmente semi-vuoti, nel senso che toccherà ai prossimi esecutivi riempirli di contenuti, sempre ammesso che i prossimi governi vogliano insistere su una riforma già abortita tre volte. Ma nulla assicura che i nuovi equilibri parlamentari che usciranno dal voto saranno più favorevoli al federalismo di quelli attuali, e anzi molti indizi fanno pensare il contrario. Lo scenario più probabile prevede che Pdl e Lega conquistino il premio di maggioranza alla Camera, ma al Senato siano costretti a stringere alleanze con una parte della sinistra (Pd?) o con una parte del Terzo polo (Udc?).

Di qui il mio mega-dubbio: se il voto mette a repentaglio il federalismo, perché la Lega vuole le elezioni a tutti i costi, fino al punto di minacciare di far cadere il governo?
La risposta è semplice: perché nel gioco attuale della politica la situazione della Lega è win-win: la Lega vince comunque, perché se ci sarà una maggioranza Pdl-Lega anche in Senato Berlusconi e Bossi torneranno da trionfatori al governo, mentre se tale maggioranza non ci sarà la Lega potrà consolarsi con un aumento spettacolare del suo numero di seggi parlamentari, per lo più strappati al Pdl e al Pd del Nord. In breve il rischio del voto è enorme per Berlusconi, che comunque perderebbe seggi in Parlamento, e minimo per Bossi, che rischia «solo» di perdere il federalismo, nel caso fosse impossibile continuare con l’alleanza attuale.

Ma perché la Lega non teme di perdere il federalismo, proprio ora che è a un passo dalla meta?

L’unica risposta non ideologica che vedo è che per la Lega, ormai, il federalismo è diventato meno importante dell’allargamento della sua presenza nella pubblica amministrazione, dai Comuni alle Province, dalle Regioni al Parlamento, quella stessa amministrazione che la Lega delle origini voleva bonificare, e che ora sembra lentamente ma inesorabilmente trasformarsi in un terreno di pascolo, come accade a qualsiasi normale apparato di partito. Il federalismo all’inizio era prevalentemente un fine, ora sta diventando un mezzo, uno strumento di propaganda. Non dobbiamo stupircene, perché succede in tutti i partiti, e la Lega non fa eccezione. La notizia è solo che, crescendo, la Lega sta diventando un partito come gli altri. Un vero peccato, perché il federalismo è (era?) una buona meta, e sono ancora tantissimi i politici e gli amministratori che – nella Lega come negli altri partiti – fanno il loro dovere con serietà e con passione.

La Stampa 10.09.10