economia, politica italiana

"Il freno a mano della nostra economia", di Salvatore Bragantini

Sorda all’interesse generale, la classe dirigente politica e civile assiste al turbine di scandali come alla cronaca di una partita, se però in questa cronaca non leggiamo i nostri mali di fondo, non vincerà nessuno. Il dibattito pubblico, avvelenato fin qui da un duello combattuto coi vecchi arnesi dei Servizi — una costante della storia patria — inquadra alfine la nostra vera sfida: restare fra i grandi in mezzo ai sommovimenti dell’economia globale, salvando le conquiste dello scorso secolo.

Fa bene il ministro dell’Economia a delineare un piano per crescere, recuperando la perduta competitività; lo chiede a tutta la Ue il presidente della Commissione Barroso, da ultimo al Parlamento europeo. Ce n’è da fare! Pesiamo, in Europa e nel mondo, molto meno della nostra economia. La vera politica estera italiana, mai passata dal Parlamento, è in mano a un autocrate onirico, che tratta a tu per tu con autocrati veri. Dopo Gheddafi rivedremo i sodali consueti; tutti guardano le scenografie (beduine o neo-sovietiche), ma nessuno sa cosa si dicono. L’Eni segue, o forse precede. I nostri alleati storici si innervosiscono.

Del federalismo ancora non si vede la polpa, potrebbe andar bene in un Paese così lungo, se non fosse imposto, ad un governo sotto scacco, da chi evoca la secessione. Ove le difficoltà dell’euro dovessero tornare attuali, in Italia — che solo per metà è in regola con l’euro, l’altra metà essendo Grecia — sarebbe in pericolo la stessa unità nazionale.

Tremonti pensa alle aggregazioni fra imprese, alla ricerca, a una più efficiente giustizia. Tutto bene, ma l’Italia non può ignorare l’elefante nella stanza. A bloccarci non sono tanto singole questioni serie, ma superabili in un contesto sano e vitale. La causa profonda della stagnazione è il lento — e poco avvertito — degrado civile, che si declina nel soffocante peso della corruzione e di una pervasiva criminalità, nella frattura Nord-Sud, nell’evasione fiscale, nel crescere delle ingiustizie sociali; completa il quadro la deturpazione del paesaggio.

È questo il freno a mano da togliere. Sia chiaro, la corruzione è ovunque, Germania inclusa, però lì chi è beccato — come Siemens — la paga cara. Da noi non è episodica, bensì diffusissima; anche scoperta, resta impunita, per prescrizione o per indifferenza. Come un pesce nell’acqua ci nuota la criminalità organizzata. La relazione annuale di Bankitalia ha dato al tema grande enfasi e la cronaca ne dà diuturno conto. È un crescendo, dal favoritismo delle raccomandazioni al sommerso, all’evasione, ai fondi neri, alle tangenti; così le mafie in affari arrivano al Nord.

Ecco il vero macigno che impedisce lo sviluppo. Gli operatori seri, specie esteri, stanno alla larga; è attratto invece chi del sistema profitta. Gli investimenti languono. Se non ce ne convinciamo, e non agiamo davvero di conseguenza, siamo condannati a regredire. Solo sciogliendo questi nodi libereremo la molla che comprime lo sviluppo. Certo, è un vaste programme, ma il governo si muove in direzione opposta, lotta allo spasimo ora per il «processo breve», ora per la legge sulle intercettazioni. Un coordinatore del Pdl resta in carica dopo che la Banca d’Italia lo ha divelto dal suo cadreghino bancario. Per finire, un enorme problema politico: le crescenti disuguaglianze torneranno alla ribalta. Non servono le omelie riminesi sulla fine del contrasto di classe (ricordate Fukuyama e la fine della storia?), né i delfici responsi su rapporti diversi fra capitale e lavoro. In autunno salirà la tensione sull’occupazione, che la mini-ripresa non riesce a stimolare. Il governo forse ignora che a Milano o Roma un neolaureato con posto fisso — oggi un fortunato — fatica a campare, senza aiuti dalla famiglia, non può sposarsi. Pensiamo almeno ai risvolti fiscali immediati. A Londra il centrodestra ha subito aumentato l’imposta sui capital gain e agevolato i redditi bassi; certo non pensa ad abolire l’imposta di successione. In Italia l’abbiamo purtroppo fatto, riduciamo almeno l’imposta su chi guadagna poco, alziamo quella sulle rendite finanziarie al 20% (oggi darebbe poco gettito, ma farebbe anche meno rumore), e aumentiamo il prelievo sui redditi elevati, senza spremere chi già fa il dover suo: solo 75mila dichiarazioni superano i 200mila euro di reddito. Tremonti è del ramo, troverà il machiavello giusto: più soldi a chi li spenderà subito, più benzina all’economia, un po’ meno iniquità. Ma il governo non ci pensa: vuol sostenere di aver mantenuto l’incauta promessa di «non mettere le mani nelle tasche degli italiani». Suvvia, i primi a farlo, in sua vece e su suo invito, sono stati gli evasori, premiati con lo scudo fiscale.

Un dubbio finale: per Tremonti «i governi possono passare, non è il caso del governo Berlusconi, che è un unicum ». Con rispetto, ministro, non ci tenga sulle spine: cosa ci sta nascondendo?

Il Corriere della Sera 14.09.10