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"Fiat, Federmeccanica e il braccio di ferro", di Nicola Cacace

Sulle ultime mosse di Fiat e Federmeccanica, protocollo Pomigliano e disdetta del contratto nazionale, c’è chi ha parlato di «riforme necessarie per rendere le imprese più competitive» (Marcegaglia) e chi «di attacco grave ed irresponsabile ai diritti sindacali» (Landini). Le innovazioni del modello Pomigliano sono, 18 turni settimanali, dalle 6 di lunedì alle 6 di domenica, raddoppio dello straordinario contrattuale, pause dimezzate. Innovazioni più vicine alla Cina che all’Europa, dove i 18 turni non sono generalizzati, e che non avvengono nemmeno in Polonia, dove i turni del sabato sono coperti dagli straordinari: eppure sono state accettate da tutti i sindacati, Fiom compresa. La rottura con la Fiom è avvenuta sulla parte finale del protocollo relativa alla “clausola di responsabilità” con forti limitazioni dei diritti sindacali. Rottura che non condivido perché, come ha detto Carniti, «l’accordo Pomigliano è un dictat impresentabile, madi fronte a un prendere o lasciare senza alternative, la Fiom doveva firmare anche per presa d’atto» (Repubblica, 23 giugno). Un sindacato non può stare a lungo senza fare accordi, così come un padronato lungimirante non può approfittare delle debolezze altrui (crisi economica) per stravolgere il quadro. Il passaggio dalla settimana di cinque giornate ai 18 turni comporta già un peggioramento significativo delle condizioni di lavoro e di vita, con miglioramento dell’utilizzazione degli impianti e della competitività. Non c’era bisogno di appesantirlo con la doppia forzatura della “clausola di responsabilità” e della disdetta contrattuale. Si dice che la globalizzazione impone questi sacrifici. La risposta italiana differisce da quella europea. La storia delle relazioni industriali è stata fatta dalle democrazie più avanzate – 48 ore in Inghilterra ad inizio ’900, 40 ore e sabato libero in Europa negli anni ’60 – mentre oggi sembra che il pendolo si sia invertito, almeno in Italia. Non è così in Germania e Francia che, con produzioni d’auto quadruple della nostra e con un costo lavoro superiore hanno investito in innovazioni ed in redistribuzione del lavoro per difendere produzione ed occupazione. Attenzione a tutti i fattori di competitività, soprattutto a quello umano. E attenzione alle accelerazioni laceranti della deregulation. Se è vero che «all’impresa globale non servono lavoratori usa e getta ma competenti e coinvolti»,come disse lo stesso Marchionne («Marchionne, la Fiat e gli altri», Varvelli editore, pag 228), questa strategia di rottura sociale e sindacale, assecondata dal governo, non produrrà buoni frutti sul lungo periodo. Nell’interesse dell’industria e del paese bisogna sostituire l’attuale quadro di dictat e divisioni in uno di dialogo e condivisione.

L’Unità 15.09.10