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"L'anniversario della Disunità" di Adriano Sofri

Tutto alla rovescia. L’Italia è sfatta, basta finir di disfare gli italiani. Si intitolarono piazze, anche la più bella, a Trieste, all’Unità d’Italia. Sembrerà almeno un po’ buffo correggere in “Piazza Divisione d’Italia”. Ma qualcosa bisognerà inventare, perché nel riavvolgere il Risorgimento all’indietro siamo andati lontano. E la celebrazione del prossimo anno sarà una commemorazione. Dice Bossi che il federalismo è cosa fatta. Il federalismo no, e Cattaneo è solo usurpato: ma uno sgretolamento avaro e rancoroso sì, e abbastanza irreversibile. In certe reazioni il sindaco Vassallo ammazzato ad Acciaroli è sembrato affare riservato al già Principato inferiore del Cilento. Perfino l’antica guerra fra cultori del Risorgimento e suoi detrattori in nome delle insorgenze e della conquista coloniale del Sud, benché riesacerbata, va ormai fuori bersaglio. Quella era una storia fratricida dunque anche fraterna. Fratelli d’Italia, anche l’un contro l’altro armati. Carlo Pisacane, biondo e socialista e martire (a Sanza, il lato del Cilento dirimpetto a Pollica) aveva un fratello, Filippo, rimasto, lui, ufficiale borbonico, e fra i due non venne mai meno mai l’affetto reciproco. Si disse che il fratello legittimista fosse designato al comando contro la spedizione di Sapri, e sostituito all’ultimo momento dal re Ferdinando.

Mario Martone ha fatto un film ambizioso, bello ed emozionante, che si lascia alle spalle i partiti presi e mostra come le vicissitudini italiane passino avanti e indietro attraverso le stesse persone, le stesse comunità, gli stessi luoghi. I suoi protagonisti sono tre amici, nati in quel Cilento, e da lì mossi alla volta della Parigi e della Londra dell’esilio e della cospirazione, della Ginevra di Mazzini, della Torino sabauda, fino al ritorno al Sud dell’Aspromonte. Sono divisi dall’origine, figli di signori e di contadino, e poi dall’indole e dalle circostanze. Uno ucciderà l’amico popolano prendendo a pretesto il sospetto del tradimento, e andrà incontro al patibolo partecipando all’attentato di Felice Orsini a Napoleone III. L’altro terrà intatto l’ideale unitario e repubblicano nelle carceri borboniche.

I grandi delle figurine risorgimentali compaiono appena o vengono mostrati, come Mazzini nella dedizione solenne e fanatica alla causa che li brucia dentro. Le vicende si svolgono nell’arco di un trentennio attorno alla figura finalmente illuminata di Cristina di Belgioioso. Il racconto ha un doppio registro: come si è fatta l’Italia, e come si è fatta male. Senza che una pagina prevalga sull’altra, soffocandola o riscattandola. In una scena, girata su un’altura nel territorio di Pollica, Martone mette due personaggi del 1862 su un’anacronistica gettata di cemento, che si guarda ora come un amarissimo presagio. Il nodo dell’Italia fatta e dell’Italia fatta male lo si vuole sciogliere oggi da più parti disfacendo l’Italia. È un segno dei tempi, direte, della mezza riuscita, dunque del fallimento intero, dell’unità europea. Si sono separate Cechia e Slovacchia, si sono sterminati i concittadini della Jugoslavia, il Belgio non riesce a incollare i cocci e fare un governo…

Noi facciamo finta di niente. Davanti al paesaggio politico, viene in mente il favoloso ingorgo stradale dei giorni scorsi tra Pechino e la Mongolia, 120 km e 10 mila camion e giorni e notti di coda – chissà, un banale incidente. L’incidente è avvenuto da tanto tempo, tutto è fermo, il carro attrezzi non riesce a passare, Berlusconi è lì, e fino alla sua rimozione politica (quanto al fisico, centoventi di questi anni) niente succede, salvo un triviale baccano di clacson. La politica tutta non può fare a meno di misurarsi con questo affare primario: sgomberare la strada. Ma il traffico riprenderà lungo percorsi già largamente segnati. Nell’attuale non-governo sono due i ministri alla ribalta: Maroni e Tremonti. Uno è della Lega, l’altro pure. All’indomani delle elezioni, sgomberato Berlusconi (o per sgomberarlo), Tremonti sarebbe il candidato più plausibile al governo: uomo forte, ma privo di un partito e un elettorato suo, dunque servo-padrone fino a quando la Lega – la cui voracità vien divorando – non vedesse l’occasione di intestarsi direttamente il governo nazionale.

Alla Lega si offre oggi l’opportunità di combinare il secessionismo, il visionario estremismo senile del professor Miglio, con lo strappo di enclave via via più larghe nel resto del paese – un processo di lampedusizzazione – e il controllo via via più diretto sul governo centrale, contrappuntato da qualche trasferimento napoleonico di ministeri e canali televisivi da Roma al Nord. Simmetricamente, il restante sistema dei partiti si distribuisce fra una resistenza Democratica (presto logorata, salvo un risorgimento) al Centro, e una eventuale aggregazione controleghista di ex An e Lombardo e altri spezzoni in un meridione infeudato alle famiglie di malavita. Le quali si intendono di decentramento e di radicamento nel territorio, e sono più unitarie di Mazzini quanto agli affari.

Arriveremo ai 150 anni dell’Unità così o no? Se è così, diamo una mano a far muovere l’ingorgo – senza bussare al clacson, come si dice a Napoli e si fa dappertutto – ma guardiamo anche un po’ più in là. Dal sud al nord d’Italia, ne mandiamo Mille al giorno di ragazzi che “giù” hanno studiato per niente. Per intravvedere una tendenza contraria alla frantumazione egoistica dell’Italia e del sentimento che se ne fanno i suoi cittadini non si può che guardare ai giovani, e all’eventualità che una solidarietà e una confidenza fra loro promuova un giorno in Erasmus, una spedizione comune, diventi più forte del vincolo al proprio territorio e ai propri vecchi capitribù. Il trapasso invalso da parole come terra a una come territorio è del resto illuminante: si può voler bene a una terra, per un territorio si fa la guerra di confine, o una causa di sfratto.

Noi credevamo, ha intitolato Martone. “Noi”: Bellini e Verdi e Rossini, Mazzini che muore sotto falso nome nell’Italia che l’ha chiuso in fortezza, Francesco Hayez e la nazione dipinta, il western italiano dei valloni del Cilento e i suoi briganti ribelli e il sindaco Vassallo ammazzato vilmente ad Acciaroli. Qualcosa da dire, da far vedere, c’è ancora. Qualcosa da credere.

Nella biografia di Carlo Pisacane, pubblicata nel 1932, Nello Rosselli scriveva: “Pare a me che si possa e si debba ormai (son passati ottant’anni) guardare con uguale rispetto al Pisacane “italiano” e a quello accanitamente borbonico; e infatti se l’uno contribuì direttamente alla formazione unitaria del nostro paese, l’altro – e con lui gli innumerevoli dimenticati e vilipesi che fino all’ultimo e con personale sacrificio sostennero i regimi ritenuti legittimi – lasciò un esempio di coerenza ideale, di dirittura”. Nello Rosselli, fratello a sua volta di Carlo, socialisti liberali, assassinati assieme da miliziani fascisti nell’esilio francese, nel 1937. Pare anche a me, adesso che sono passati centocinquant’anni, e che si vogliono alzare altri muri e frontiere.

La Repubblica 15.09.10