economia, politica italiana

«Il federalismo e le chiacchiere», di Claudio Martini

È in pieno svolgimento a Cagliari la Festa Nazionale del Pd sugli Enti locali. Molti i dibattiti, alta la partecipazione, viva l’attenzione dei cittadini. Il successo della Festa conferma la necessità di prestare ascolto all’allarme popolare sul destino dei servizi essenziali e sulle politiche sociali, in questo momento di pesanti tagli governativi alla spesa pubblica locale, di smantellamento del welfare nazionale.
La Festa è l’occasione di un’originale riflessione sul federalismo possibile e necessario, fuori dalle estenuate polemiche romane. La scelta di Cagliari non è casuale. La Sardegna è regione crocevia: statuto speciale, storico autonomismo e recenti spinte indipendentiste, volontà di rilancio nel quadro nazionale ed europeo, originalità rispetto al tradizionale meridionalismo. Da Cagliari si guarda al federalismo senza sospetti ma con approccio assai problematico, molto esigente. E con totale disdegno della retorica strumentale sul “federalismo ormai cosa fatta”: per i decreti delegati in costruzione nulla sarà effettivo prima del 2016!
Alla domanda “c’è da temere o da sperare con il federalismo?”, la risposta di Cagliari è semplice e chiara: dipende! Dipende da come verrà costruito, dipende da noi e dalla voglia di scommetterci, dalla determinazione delle comunità di assumersi le responsabilità che il federalismo comporta. Il che significa battersi per un esito positivo, non accettare il deludente svuotamento che Bossi e Berlusconi ci stanno regalando, non scegliere di fare da spettatori né sperare che tutto si areni da solo, come spesso avviene in Italia.
Non è banale che dalla Sardegna emerga una volontà positiva, la voglia di raccogliere la sfida. È essenziale che le regioni insulari e quelle centrali e meridionali sfatino il mito che il federalismo interessa solo il Nord. Basilare è la dimostrazione che Regioni e poteri locali ottengono, sul territorio, risultati migliori di quelli prodotti da uno Stato centralistico, burocratico, distante anche nel capire i problemi. La Sardegna è esempio chiarissimo al riguardo: Regioni e poteri locali fronteggiano in modo innovativo nodi come la sanità, la tutela del territorio, le politiche sociali; mentre lo Stato – al di là degli scandali della Maddalena – lo si “vede” nella desertificazione industriale, nel disastro della scuola, nello sfarinamento dei trasporti. Lo stesso penso si possa dire per tutte le regioni, il che può sostenere un risveglio autonomistico e federalistico che coinvolga tutte le forze produttive e metta spalle al muro il “federalismo delle chiacchiere” della Lega e della Destra.

da www.unita.it

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«Federalismo, la partita si gioca al Sud», di Luca Ricolfi

Per capire la politica siciliana bisogna, come minimo, essere siciliani e fini conoscitori della realtà dell’isola. Perciò non proverò nemmeno ad azzardare un’interpretazione della complessa partita che lì si sta giocando in questi giorni, né a decodificare i segnali che il presidente del Consiglio – di passaggio a Taormina – ha lanciato ieri ai vari politici dell’isola.
Quel che però mi sembra di poter dire, dal nebbioso Nord in cui sono sempre vissuto, è che la partita siciliana è solo un episodio di una partita molto più generale, una partita che si gioca un po’ in tutte le regioni meridionali ma in realtà ci riguarda tutti. Questa partita si chiama «futuro del Sud», e alla lunga avrà ripercussioni sull’Italia intera, se non altro perché il destino del Centro-Nord dipenderà dal modo in cui – non in un lontano futuro, ma nei prossimi mesi – la classe politica imposterà la questione del Sud.

Perché nei prossimi mesi?
Perché nei prossimi mesi, se il governo non cadrà prima di Natale, saranno emanati tutti o la maggior parte dei decreti delegati della legge sul federalismo fiscale.
E anche se il governo dovesse cadere, sarà sul federalismo che si combatterà un’eventuale campagna elettorale. Vista da Roma, la crisi della maggioranza è una puntata della guerra Fini-Berlusconi, e la posta in gioco è lo scudo giudiziario per il presidente del Consiglio. Ma vista dalle rive del Po la crisi della maggioranza è soprattutto un passaggio cruciale nella vicenda del federalismo. Dalle convulsioni di questi giorni si può uscire con un rafforzamento delle forze che più o meno apertamente osteggiano il federalismo, oggi raggruppate sotto l’etichetta del Terzo polo, oppure con un successo delle forze che puntano su una sua applicazione rigorosa, non solo la Lega ma anche consistenti settori del Pdl e del Pd, specie al Nord.

Il problema politico, tuttavia, è che in questa partita il vero arbitro non è né il governo né il Parlamento, ma è l’elettorato meridionale. E questo non solo perché è al Mezzogiorno che il federalismo chiede i cambiamenti più radicali, ma perché da quando siamo entrati nella seconda Repubblica è sempre il Mezzogiorno che decide chi vince le elezioni: il Nord vota stabilmente a destra, le «regioni rosse» del Centro votano stabilmente a sinistra, il Sud oscilla e con il suo oscillare decide il vincitore. Al limite si potrebbe far votare solo gli elettori meridionali, tanto il voto del resto del Paese – sclerotizzato com’è – è sostanzialmente ininfluente.

Il problema è dunque: che cosa farà il Sud? O meglio: che cosa faranno le forze politiche per orientare il voto del Sud? O ancora: quale idea del futuro dell’Italia vincerà fra gli elettori del Sud? Accetteranno la sfida del federalismo o faranno resistenza passiva, cercando di mandare a monte i sogni della Lega?

Ecco perché è importante capire il gioco delle forze politiche, ma anche i sentimenti in campo nella società civile. E qui vorrei riferire una sensazione personale, basata sui contatti che ho avuto negli ultimi anni con persone del Sud, ma anche sui numeri e sulle statistiche. Ebbene, la mia impressione è che noi del Nord abbiamo una visione molto, troppo stereotipata della realtà meridionale. Una visione che sottovaluta le enormi differenze interne del Mezzogiorno. Differenze fra regioni ad alta e a bassa densità mafiosa, innanzitutto.
Ma anche differenze interne alle stesse regioni di mafia (Benevento non è Caserta). Quando il ministro Brunetta dice che alcuni territori sono «un cancro sociale e culturale», e che se essi si comportassero come il resto del Paese l’Italia sarebbe al livello dei più avanzati Paesi europei, non solo dice una cosa esatta, che studiosi avvertiti come Paolo Feltrin ripetono da anni, ma fa un’enorme apertura al resto del Mezzogiorno. Perché se Brunetta ha ragione, vuol dire che dentro il Sud ci sono realtà molto differenziate, alcune delle quali non lontane dagli standard medi nazionali. Prendiamo l’intensità dell’evasione fiscale: nei due territori indicati da Brunetta (la Calabria e la conurbazione Napoli-Caserta) è quasi il doppio della media nazionale, ma nelle cinque regioni a bassa densità mafiosa (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna) è di poco superiore alla media italiana. Prendiamo le estorsioni, il più tipico reato connesso alla criminalità organizzata: fatta 100 la media nazionale, i territori-cancro di Brunetta sono a livello 273, le regioni del Sud a bassa intensità mafiosa sono a livello 116, appena al di sopra della media nazionale. Così per molti altri indicatori, che invariabilmente mostrano che l’enfatizzatissima distanza Nord-Sud è minore della distanza che, dentro il Sud, separa i territori normali dai territori «speciali».

Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per l’efficienza delle amministrazioni locali, dove – accanto ai frequenti casi di dissipazione del denaro pubblico – non mancano esempi di amministrazioni virtuose. Così come sono sempre più numerosi i politici che, anziché demonizzare la Lega Nord, preferiscono raccoglierne la sfida, riconoscendo gli errori del passato e attrezzandosi a non ripeterli nel futuro. Insomma, voglio dire che una parte della classe politica meridionale ha capito che i quattrini sono finiti, che come prima non si può andare avanti, che il vittimismo non paga più, e che il federalismo può essere un’opportunità per il Sud. Di donne e uomini così negli ultimi tempi mi è capitato di conoscerne parecchi, ed è stata una sorpresa molto piacevole. Essi non chiedono di fermare il federalismo, ma pretendono che – se e quando il ceto politico meridionale saprà fare la sua parte – anche lo Stato centrale faccia la sua, a partire dalle infrastrutture e dagli investimenti pubblici, drammaticamente e colpevolmente dimenticati negli ultimi 10 anni.

Di fronte a questa realtà, come si pone la politica nazionale?
La mia impressione è che, proprio perché sarà il Sud a decidere le elezioni politiche, per i nostri due maggiori partiti e i loro leader non sarà facile far leva sulle forze migliori presenti nel Mezzogiorno. Berlusconi sa che per restare in sella deve concedere qualcosa agli uomini del Sud (parlamentari e cittadini), e il rischio che conceda le cose sbagliate è molto forte. Quanto a Bersani non ha nulla da concedere, ma può promettere molto, ad esempio che la santa alleanza fra sinistra e Terzo polo annacqui o congeli la riforma federalista.

Eppure quella di aiutare le energie migliori del Sud è l’unica strada. Se la politica non saprà fare questo – risparmi severi sulla spesa corrente, investimenti coraggiosi in infrastrutture – il Sud non ne verrà fuori. E, a quel punto, non ne verremo fuori neppure noi, perché un Mezzogiorno così com’è oggi è un lusso che il Nord non si può più permettere.

da www.lastampa.it