economia, lavoro

Più qualità per uscire dalla crisi

Intervista all’economista Travaglini: “In Italia si è puntato solo sulla flessibilità e sulla moderazione salariale. Ma per aumentare la produttività contano quantità di capitale, tecnologie e il livello qualitativo. Serve una vera politica industriale”

La crisi dell’economia reale ha ormai due anni. A lungo negata da chi ci governa, è ormai diventata una realtà per tutti anche se c’è chi, dopo averne finalmente ammesso l’esistenza, l’ha dichiarata quasi subito già alle spalle. Nel frattempo c’è stato (e purtroppo c’è ancora) un boom della cassa integrazione e insieme uno stillicidio di chiusure di imprese. Insomma il problema occupazione nel nostro paese sembra sempre più grave. A che punto siamo? E soprattutto, come siamo arrivati a questa situazione? Ne parliamo con Giuseppe Travaglino, docente di economia politica all’Università di Urbino, che al pianeta mercato del lavoro e alle sue orbite ha dedicato molti studi e più di un libro (tra questi, segnaliamo ai lettori “L’economia italiana del nuovo millennio”, scritto con Enrico Saltari per i tipi di Carocci). E partiamo dall’attualità. Uno degli indicatori più importanti, quello del tasso di disoccupazione, ci dice che se è vero che dopo anni di discesa il fenomeno ha ripreso a crescere (mentre l’occupazione, dopo anni di crescita, adesso sta calando, da noi come in tutta Europa) in Italia comunque siamo ancora abbastanza al di sotto della media europea e dei nostri principali “competitor”.
Si può dunque dire, come fa il governo, che le cose da noi vanno meglio che negli altri paesi? Sì, i dati sono relativamente migliori per quanto riguarda la disoccupazione, naturalmente escludendo la disoccupazione “nascosta” dalla cig. Secondo alcune stime questo tasso sarebbe superiore ai tre punti percentuali da aggiungere all’8,4% ufficiale. Nel confronto con gli altri paesi i nostri tassi sono però certamente peggiori dal punto di vista dei livelli occupazionali. Il tasso d’occupazione, infatti, da noi sta intorno al 57 per cento, mentre la media dell’Unione Europea è all’incirca pari al 65 per cento, e gli Usa al di sopra del 70. Dire che la disoccupazione sta aumentando meno che in altri paesi può dipendere da una composizione diversa dell’occupazione e da una risposta diversa del tessuto produttivo. Dire che stiamo meglio degli altri mi sembra invece quantomeno azzardato, visto che la condizione di partenza è quella di un livello più basso del tasso di occupazione e di attività, cui in Italia si associa da più di un quindicennio una debole crescita della produttività del lavoro, la capacità cioè del lavoro di produrre valore.

E allora come stiamo? In termini economici quello che conta sono le dinamiche di entrata e di uscita dallo stato di occupazione, più che la disoccupazione in valore assoluto. E la realtà del nostro mercato del lavoro è molto meno dinamica di quella degli altri paesi. Infatti, se prendiamo i tassi di permanenza nello stato di disoccupazione, o in quello d’occupazione, sono superiori a quelli degli altri paesi. Aspetti strutturali del sistema produttivo, assieme ad aspetti di natura normativa e legislativa, tendono a favorire chi è dentro il mercato del lavoro sfavorendo chi ne è fuori. È un vecchio problema su cui si dibatte da anni, a volte in maniera impropria. È vero infatti che chi è fuori dal mercato del lavoro gode di minori tutele, ma è anche vero che spesso e volentieri le ricette proposte per superare il dualismo del mercato del lavoro, invece di migliorare la situazione dei disoccupati tendono a creare un’eguale opportunità peggiorando lo stato di chi lavora.

La situazione del mercato del lavoro italiano, insomma, non va bene da un bel po’ di tempo. Quali sono le cause, naturalmente per sommi capi? La tesi che ha prevalso, e che riguarda tutto il mercato europeo, è che un sistema economico reagisce meglio o peggio agli shock dell’economia a seconda delle regole del suo mercato del lavoro. Più queste sono rigide, più i processi di aggiustamento necessari dopo le fasi di shock tendono a essere lenti. Sulla base di questo presupposto, i processi di deregolazione del mercato del lavoro, le politiche di moderazione salariale, la flessibilità dell’ultimo ventennio – che sono state politiche europee, nate in seno alle istituzioni comunitarie –, hanno avuto come obiettivo quello di far sì che il mercato del lavoro fosse più dinamico, sia in uscita che in entrata, per renderlo in sostanza più solido. L’attesa era che a minore quantità di regole corrispondesse una maggiore probabilità di trovare un’occupazione, cui a sua volta sarebbe corrisposta anche una maggiore produttività. I dati mostranoperò che questo obiettivo non è stato raggiunto. È del resto l’annoso problema delle regole e del mercato su cui si dibatte da decenni.

Qual è la sua posizione, a proposito? Io credo che prima di rilasciare una patente di guida bisogna accertarsi che chi la richiede sappia guidare e conosca i segnali stradali. Fuor di metafora, pensare che un sistema si autoregoli mi sembra abbastanza illusorio. E mi sembra che proprio il mercato del lavoro l’abbia dimostrato. Se prendiamo in esame gli ultimi vent’anni in Italia, vediamo che, a seguito della flessibilizzazione e della deregolamentazione del mercato del lavoro si sono manifestati grandi cambiamenti che però nel lungo periodo non hanno giovato né al lavoro né alle imprese. Oggi abbiamo un lavoro più debole, delle imprese più deboli, una produttività più bassa, una competitività inferiore. Se tutto ciò non bastasse, durante questo ventennio la distribuzione del reddito è mutata sensibilmente a favore dei redditi non da lavoro: parliamo di circa dieci punti percentuali di Pil, più o meno 150 miliardi di euro. Questo travaso di ricchezza dai redditi da lavoro ai redditi non da lavoro è reso ancor più pesante dall’esserci stato, in questo ventennio, un forte aumento dell’occupazione: milioni di nuovi occupati sono entrati, e forse transitoriamente, nel mercato del lavoro.

Questo però non è un male, no? Di per sé, tutt’altro. Ma se parallelamente alla crescita dell’occupazione diminuisce la quota di reddito destinata al lavoro, questo vuol dire che ovviamente diminuiscono i salari pro-capite.

Abbiamo visto com’è andata da noi, negli ultimi vent’anni: deregolazione, flessibilizzazione, diminuzione dei salari. Ma nei paesi che consideriamo da sempre nostri competitor – Germania e Francia – com’è andata? Alla fine degli anni 80 la disoccupazione era il grande problema per tutti. L’Europa intraprese un nuovo percorso di lungo periodo con vari accordi, tra cui quello di Lisbona, che definiva la traiettoria dello sviluppo economico verso il quale tutti i paesi avrebbero dovuto convergere, rivedendo anche le legislazioni nazionali. Se guardiamo la tabella qui sotto (che comunque si riferisce al periodo antecrisi: oggi le cose stanno anche peggio) gli andamenti non sono stati omogenei. Il confronto da fare, ovviamente, non è con la Spagna, paese dall’economia più “giovane”, quanto con Germania e Francia e Stati Uniti (anche se questi ultimi hanno da sempre un’economia più dinamica). Se per quanto riguarda la crescita del Pil siamo alla metà degli Usa, rispetto alla Francia siamo 0,7 punti sotto in media annua, mentre rispetto alla Germania siamo più o meno allineati (ma la Germania in questo periodo ha proceduto alla riunificazione, proprio mentre da noi aumentava invece il dualismo Nord-Sud). Se poi scomponiamo il Pil nelle sue varie componenti, vediamo che la produttività da noi cresce assai meno che negli altri paesi: mezzo punto all’anno in meno rispetto alla Francia, un punto e due rispetto alla Germania. E invece l’occupazione cresce di più: quasi un punto l’anno, rispetto al mezzo punto della Francia e a una Germania che ha invece ridotto il tasso d’occupazione, sostituendo il lavoro con capitale.

Se capiamo bene, quindi, di quell’1,5 di aumento del nostro Pil, una buona parte è dovuta al lavoro. Però la produttività è in calo. Come è possibile? Forse bisogna fare un po’ di chiarezza sui termini. Spesso e volentieri il binomio “produttività del lavoro” induce in inganno. Porta infatti a dare al lavoro la responsabilità esclusiva della crescita o del calo della produttività. Ma le cose non stanno proprio così. Nel determinare il valore della produzione conta il lavoro ma conta anche la quantità di capitale e le tecnologie produttive. Il lavoro sarà quindi più o meno produttivo a seconda che trovi fattori produttivi adeguati e quanto più lo stesso lavoro è qualificato. La crescita della produttività dipende dalla qualità del capitale fisico, dal miglioramento delle competenze e della manodopera, dai progressi tecnologici e dalle nuove forme di organizzazione. Del resto, gli anni di cui stiamo parlando, gli anni di Lisbona, sono quelli della rivoluzione dell’Ict (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione). La strategia di Lisbona parlava molto di Ict e di qualità del lavoro. Ma di questa Ict sembra che noi nulla abbiamo recepito nella produttività.

Come si spiega? In economia politica si dice: “a ogni obiettivo il suo strumento”. Lisbona chiedeva di far crescere l’occupazione e in parallelo di sviluppare la produttività. Dunque, due obiettivi, almeno due strumenti. Ma da noi si è usato prevalentemente lo strumento della flessibilità del lavoro e della moderazione salariale. Anche il protocollo del luglio 1993, del resto, prevedeva queste cose, ma ne prevedeva anche tante altre. Servivano investimenti, da indirizzare in modo adeguato. Per farla breve, serviva anche un po’ di politica industriale. Ma per vent’anni in questo paese questa parola è stata considerata un tabù che evocava il dirigismo. Le imprese hanno visto aumentare nell’immediato il profitto e su questo meccanismo si sono adagiate. Invece di utilizzarlo come forma di autofinanziamento, lo hanno utilizzato per altri obiettivi. Tutto Questo va inserito in un contesto che era quello della liberalizzazione dei mercati finanziari, della globalizzazione, della liberalizzazione dei movimenti di capitale e dunque della concorrenza internazionale. Nel quale le imprese e il lavoro (quest’ultimo ancora di più)si sono dimostrati l’anello debole.

La politica e i governi hanno trascurato questo aspetto. Un errore madornale, no?
Non c’è dubbio. Va detto anche che questo aspetto non è stato molto capito all’inizio. Quando abbiamo cominciato a riflettere criticamente su questo fenomeno – e tra gli economisti un particolare contributo è venuto da Enrico Saltari – l’idea prevalente era che con la deregolamentazione del mercato del lavoro le cose sarebbero andate comunque meglio. Ad avanzare dubbi si passava per Cassandre. Oggi ci si è accorti che il successo delle politiche del mercato del lavoro c’è stato, almeno fino a due anni fa, ma non è stato completo. Perché l’aumento dell’occupazione si è accompagnato a una stagnazione della produttività. E quindi alla minore creazione di ricchezza. La teoria economica insegna che nelle fasi di crisi, quando la crescita precedente è stata conquistata attraverso aumenti di produttività, investimenti e progresso tecnologico, la capacità di attraversare la crisi e di uscirne bene è molto superiore a quella che si ha quando la crescita è stata dovuta prevalentemente all’inclusione del solo lavoro.

Da noi è andata così. Altrove è andata diversamente. Per merito dei governi o delle imprese? Di tutti e due, di solito. La Germania si distingue dagli altri paesi, soprattutto da noi perché esporta molto (più di noi) ma esporta beni a tecnologie avanzate (diversamente da noi). Una struttura manifatturiera meno frammentata e aver puntato su beni ad alto contenuto tecnologico fanno sì che in Germania ci sia da sempre un’alta produttività a cui si accompagna in continuazione la riqualificazione del lavoro. Noi invece facciamo spesso tecnologia nei processi, pur restando all’interno di prodotti tradizionali. Così però ci troviamo a confrontarci con produzioni di beni a basso contenuto tecnologico, fatte da paesi con un costo del lavoro così basso che competere è praticamente impossibile.

Molto pesa nella scarsa competitività italiana il dualismo Nord-Sud e la deindustrializzazione del Mezzogiorno. È un processo che sembra inarrestabile, se non torna a essere una priorità… Non si può immaginare la crescita dell’Italia (se la immaginiamo unita, naturalmente) senza sfruttare il bacino potenziale rappresentato dal Mezzogiorno. Certo è difficile. Le differenze produttive e culturali tra Nord e Sud sono talmente forti che, se non si è capaci di ricostruire una politica industriale, uscirne diventa quasi impossibile. Negli ultimi vent’anni si è pensato che quella che è stata etichettata Nuova politica regionale potesse rappresentare un volano capace di coagulare intorno a sé le forze che emergevano localmente. Per quanto i contenuti di quel dibattito fossero intellettualmente accattivanti, è stato però un fallimento.

Ma anche il Nord soffre dell’insufficienza di produttività del nostro paese, no?
Ne soffre a metà. Le imprese a maggior contenuto tecnologico sono dislocate al Nord. Le medie imprese sono praticamente solo al Nord e, in quantità minore, al Centro. Il problema della flessibilità c’è anche al Nord ma non con le drammaticità del Sud. Chi perde lavoro al Nord fa meno fatica a ritrovarlo. E anche i salari, certo si sono indeboliti, ma meno che al Sud. Dove i salari sono mediamente del 10-15 per cento più bassi (dati Bankitalia). Pensare di far ripartire il Sud con ricette come le gabbie salariali è sbagliato non solo perché nel Mezzogiorno i salari sono già più bassi, ma perché si rischia di innescare la trappola della produttività.

E cioè? Se si pensa che il modo per far crescere il Sud sia solo quello di rendere ancora meno costoso il lavoro, significa dare alle imprese l’idea che sia ancora possibile produrre e investire nei settori tradizionali a bassa produttività. Il lavoro però sarà così ancora meno qualificato, e quindi ancora meno produttivo. E via dicendo: così si crea una spirale negativa per la crescita e per i salari.

Che fare, allora? Nessuno ha la bacchetta magica. Ma ricette che puntino solo sul lavoro, sul lavoro purchessia, in realtà non aiutano il Sud. Quello che serve è un lavoro di qualità. Occorre un impegno di lungo periodo dello Stato che incentivi le imprese nei settori ad alto valore aggiunto, che punti aelevare stabilmente l’occupazione, la produttività e i redditi. Torniamo al punto di prima. Servono investimenti veri. Serve una vera politica industriale.

da www.rassegna.it