attualità, lavoro

"Furto con scasso. Lavoratori «derubati» di oltre 5mila euro", di Felicia Masocco

Un decennio decisamente in perdita, tra il 2000 e il 2010 l’economia nazionale ha annaspato e la crisi globale l’ha ulteriormente indebolita. Ci vorranno anni per recuperare: solo nel 2015 si potrà tornare ai livelli pre-crisi. La Germania, invece, ci tornerà l’anno prossimo. In questo quadro c’è chi ha pagato sempre e ha pagato di più: sono i lavoratori dipendenti che non hanno potuto né speculare né evadere le tasse. I salari nel decennio sono cresciuti sulla carta per via degli aumenti contrattuali (+2,1%). Ma per effetto dell’inflazione, dell’aumento delle tasse e della mancata restituzione del fiscal drag le buste paga si sono alleggerite in media di 5.453 euro. Il fisco però non ci ha rimesso, anzi. Ci sono stati 44 miliardi di maggiori entrate da lavoro dipendente a +13,1%, mentre tutte le altre sono calate del 7,1%. Non stupisce, quindi, la «redistribuzione » a cui si è assistito: i redditi delle famiglie con a capo un imprenditore o un libero professionista sono aumentati di 5.940 euro. La perdita di potere d’acquisto si fa sentire su chi non campa di rendita e rinnova, inasprendola, la questione salariale italiana, che ha messo radici negli anni Novanta e non è più rientrata.

NEO-QUESTIONE SALARIALE A mettere il dito nella piaga è l’Ires, il centro studi della Cgil che ieri ha presentato il volume «La crisi dei salari», con il presidente Agostino Megale e con Guglielmo Epifani. Il leader Cgil ha definito «allarmante» la situazione restituitaci dalle cifre ed è tornato a chiedere l’alleggerimento del prelievo fiscale sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. Un intervento che va fatto subito, non tra tre anni, quando non servirà a nulla. «Va fatto ora e deve intervenire sull’Irpef» e non come pure si sta affacciando, sui beni di consumo, aumentando cioè l’Iva sui prodotti. «Per come vanno le cose nel nostro paese è ben facile ipotizzare che i salari resterebbero al palo mentre il lavoratore si ritroverebbe a pagare di più quello che compra -spiega Epifani- Senza contare il rischio inflazionistico». Dunque la strada non è questa. Si deve intervenire sulle tasse e compensare quanto verrebbe a mancar alla casse dello Stato con l’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie e sui grandi patrimoni come del resto stanno facendo (e non da ora) i principali paesi europei. Qualche dato in più per comprendere l’emergenza salariale. In Italia 15 milioni di lavoratori non superano i 1300 euro al mese di retribuzione. 7 milioni non sfondano il tetto di mille euro. A ciò si aggiunga che dall’inizio della crisi (2008) al secondo trimestre 2010 sono andati perduti oltre un milione di posti di lavoro; oltre 2 milioni i disoccupati censiti dall’Istat, mentre gli inattivi sono 15 milioni. Per tornare ai livelli di occupazione del 2007 ci vorrà il 2017.

QUALE PRODUTTIVITÀ? C’è un altro dato, riguarda la produttività. Argomento d’attualità se non altro perché in suo nome si fanno deroghe ai contratti nazionali come se piovesse. Per Epifani il nostro sistema fiscale, tartassando i salari e le imprese «labour intensive», uccide la produttività».È dunque un errore «legare, come fa Confindustria, il problema della produttività solo alla flessibilità del lavoro ma piuttosto puntare allo sviluppo dell’impresa, su infrastrutture e ricerca». Un elemento che la Cgil porterà nella discussione – che pare possa riaprirsi – sui contratti. Insieme a un altro: «Non è un caso che tra tutti i rinnovi del 2009, il contratto che ha portato a casa meno in termini di aumento è quello dei metalmeccanici, l’unico separato senza la Cgil – fa notare Agostino Megale- Dovrebbe essere un monito per il ministro del Lavoro e per chi ha operato per la divisione del sindacato».

L’Unità 28.09.10

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“Dieci anni di schiaffi ai salari Potere d’acquisto -5.453 euro”, di Luigi Grassia

L’inflazione e l’aumento del prelievo fiscale in dieci anni si sono mangiati, in media, quasi 5 mila e 500 euro di potere d’acquisto per ogni lavoratore italiano. La valuta l’Ires, ufficio studi del sindacato Cgil, che ieri ha presentato un rapporto su «La crisi dei salari».
L’Ires-Cgil calcola che le buste paga lorde dopo il 2000 hanno perso potere d’acquisto per 3.384 euro per colpa dell’aumento dei prezzi. Non ogni aumento viene rubricato come perdita ma solo la quota di inflazione effettiva che eccede gli aumenti contrattuali medi. A questa scrematura si sommano 2.069 euro persi per il cosiddetto «drenaggio fiscale» (in inglese «fiscal drag»): si tratta delle tasse più alte che si pagano quando, in seguito alla rincorsa fra prezzi e salari, i lavoratori guadagnano nominalmente di più e il loro reddito passa a scaglioni più alti, nei quali il prelievo è più forte, per cui il tutto si risolve in una perdita anziché in un guadagno, se non operano meccanismi di recupero.
Nel complesso del decennio la mancata restituzione del drenaggio, dice l’Ires, ha fruttato alle casse dello Stato 44 miliardi di maggiori entrate a spese dei lavoratori.
La perdita del potere d’acquisto non ha avuto un andamento lineare. Si è concentrata nel 2002 e nel 2003 (con più di 6.000 euro persi nel biennio) mentre nel 2008 e nel 2009, nonostante la crisi, c’è stato addirittura un recupero a favore dei lavoratori (reso possibile dalla bassa inflazione che la crisi economica ha portato con sé), con oltre 3.000 euro disponibili in più.
Naturalmente questo effetto benefico si è avuto solo per i lavoratori che durante la crisi sono riusciti a conservare il posto, mentre i molti che lo hanno perso (fisso o precario che fosse) hanno vissuto sulla propria pelle solo il peggio. Secondo l’analisi dell’Ires-Cgil, il recupero dei livelli di Pil del 2007 si raggiungerà solo nel 2015, mentre per tornare ai livelli di occupazione pre-crisi bisognerà aspettare il 2017.
Il lavoro dipendente, denuncia la Cgil, è penalizzato in Italia sotto il profilo fiscale rispetto ad altre forme di reddito e questo, dice il segretario generale Guglielmo Epifani, «uccide la produttività». L’Ires segnala che la produttività in Italia dal 1995 è cresciuta solo dell’1,8% mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna ha fatto +20% e oltre.

La Stampa 28.09.10

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“Potere d´acquisto giù per operai e impiegati in dieci anni hanno perso 5.500 euro”, di Luisa Grion

Per i lavoratori dipendenti debiti a quota 60 per cento del reddito lordo. La crisi fa male a tutti, ma ai lavoratori dipendenti di più. Gli ultimi dieci anni, per loro, sono stati completamente «a perdere»: hanno visto diminuire il potere d´acquisto dei salari, aumentare i debiti familiari e lievitare le tasse da versare. Hanno visto scivolare via la crescita e cadere come birilli i posti di lavoro: un quadro «desolante» che va cambiato al più presto, altrimenti la ripresa non potrà decollare. È questa la conclusione cui arriva l´Ires-Cgil nel suo rapporto sui salari degli ultimi dieci anni.
I conti sulle buste paga lasciano poco spazio ai dubbi: fra il 2000 e il 2010 i lavoratori italiani hanno perso 5.453 euro in potere d´acquisto. Una parte se li è rosicchiati il costo della vita che è stato più alto di quanto previsto e conteggiato nei contratti (3.384 euro), l´altra è legata dalla mancata restituzione del “fiscal drag”: duemila euro a testa versati in più per effetto del progressivo aumento delle aliquote su redditi gonfiati dall´inflazione. In totale, nei dieci anni presi in considerazione, la perdita del potere d´acquisto calcolata su tutte le retribuzioni ha raggiunto quota 44 miliardi: il valore di un paio di Finanziarie, soldi che potevano essere messi in giro per spingere la domanda interna e i consumi e che invece sono stati sottratti alle famiglie.
Il fatto è che nello stesso periodo proprio quelle famiglie sono state chiamate a versare più soldi nelle casse delle Stato: fra il 2000 e il 2010 le entrate tributarie da lavoro dipendente sono infatti aumentate del 13,1 per cento (al netto dell´inflazione) mentre quelle di tutte le altre voci (da lavoro autonomo, giochi e lotterie, imprese e quant´altro) sono diminuite del 7,1.
Per la Cgil questo è uno degli snodi fondamentali nella politica del rilancio: «Bisogna ridurre subito la pressione fiscale sui redditi da lavoro e sulle pensioni – ha detto il leader del sindacato Guglielmo Epifani – il nostro sistema fiscale pensa che il reddito da lavoro sia la gallina dalle uova d´oro, ma se si aumenta solo la tassazione sul dipendente, riducendola su altri fattori, non solo si compie un´operazione iniqua, ma si uccide la produttività».
Ma non per tutti la crisi ha rappresentato un tracollo, precisa il rapporto: se negli ultimi otto anni operai e impiegati hanno accumulato – in media – una perdita di reddito reale di 3.118 euro, imprenditori e liberi professionisti hanno visto aumentare le loro disponibilità (sempre in media) di 5.940 mila euro. Questi anni bui hanno dunque fatto esplodere il problema delle diseguaglianze: il 10 per cento delle famiglie (2.380.000 circa) possiede quasi il 45 per cento dell´intera ricchezza del paese e ognuna di loro può contare su patrimoni e ricchezze per 1.547.750 euro. Ma il 50 per cento della popolazione (quasi 12 milioni di famiglie) deve accontentarsi del 9,8 appena della ricchezza, mettendo insieme capitali per 68 mila euro. Un divario che invece di diminuire aumenta e che, per la Cgil, rende necessaria e urgente una politica di ridistribuzione della ricchezza. «Serve un fisco giusto che oltre a combattere l´evasione aumenti la tassazione sulle rendite, portandola al livello degli altri stati europei, e colpisca le grandi ricchezze» sottolinea Agostino Megale, presidente dell´Ires-Cgil.
Il ventaglio delle diseguaglianze è ampio: in Italia ci sono 15 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 1.300 euro al mese e circa 7 milioni (il 60 per cento donne) stanno sotto la soglia dei mille euro. Sono questi nuclei, già fragili in sé, a cadere sempre più spesso nel tunnel dell´indebitamento. Grazie alla crisi, infatti, il rapporto fra debito delle famiglie e reddito disponibile lordo ha raggiunto quota 60 per cento (fra il 2001 e il 2009 è aumentato di 27 punti, 5 solo dall´inizio della crisi). In media, una famiglia di lavoratori dipendenti contrae debiti per oltre 16,5 mila euro l´anno (l´86 per cento è legato a mutui, il resto in prestiti richiesti per consumare).

La Repubblica 28.09.10

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«Il valore dei salari è sceso di 5.400 in 10 anni», di Luciano Costantini

Più poveri e più discriminati. Questo l’identikit dei lavoratori dipendenti, disegnato nel rapporto Ires-Cgil sulla ”Crisi dei salari”. Più poveri perché in dieci anni, dal 2000 al 2010, le buste paga hanno perso oltre cinquemila euro in termini di potere di acquisto: 3.384 euro a causa dell’inflazione che è risultata più alta di quella prevista ai quali ne vanno aggiunti oltre 2.000 per la mancata restituzione del fiscal drag (aumento della pressione fiscale originato dall’espansione inflazionistica dei redditi in presenza di aliquote fiscali crescenti). La perdita totale, secondo lo studio della confederazione di corso d’Italia, arriva a 5.453 euro. Tra il 2009 e il 2010, sempre secondo la Cgil, è aumentata infatti dello 0,4% la pressione fiscale che ha portato ad una crescita delle retribuzioni di 16,4 euro netti al mese. Ma calcolando l’incidenza della cassa integrazione, l’aumento medio delle busta paga è stato di soli 5,9 euro netti. La perdita del potere di acquisto registrata nell’ultimo decennio ha prodotto in compenso un beneficio per le casse dello Stato valutabile a 44 miliardi di maggior entrate.
Un decennio caratterizzato da una crescita zero in termini di pil, occupazione, produttività e da anni meno buoni e anni buoni. I peggiori sono stati il 2002 e il 2003 con oltre 6.000 euro di perdita cumulata a causa dell’inflazione; i migliori sono stati il 2008 (+1.964) e il 2009 (+1.269). Il primo per l’aumento sostenuto in busta paga (+5,7%) e il secondo per il crollo dell’inflazione conseguente alla crisi. Una fotografia «molto allarmante», a giudizio di Guglielmo Epifani, che richiede interventi rapidi ed incisivi sul versante fiscale attraverso la riduzione del carico per i lavoratori dipendenti. «Non è che possiamo rimandare la questione alle calende greche».
Oggi oltre quindici milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 7 milioni ne guadagnano meno di 1.000, di cui oltre il 60% sono donne. Oltre 7 milioni (63%) di pensionati di vecchiaia o anzianità guadagnano meno di 1.000 euro. Dice ancora la Cgil che, prendendo come punto di riferimento il salario medio mensile di 1.260 euro, viene fuori che una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (1-19 addetto) il 18,2%; un lavoratore del Mezzogiorno il 20,0%; un lavoratore immigrato (extra-Ue) il 24,7%; un lavoratore a tempo determinato il 26,2%; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27,0%; un lavoratore in collaborazione il 33,3% in meno. La perdita del potere di acquisto dei salari ha portato ad una flessione del reddito delle famiglie che in termini reali supera il 6%, che corrisponde ad oltre 1.100 euro all’anno.
Una disuguaglianza di tipo economico-sociale che va ad affiancare anche un’altra disuguaglianza, quella finanziaria: dal ’95 al 2008 i profitti sono cresciuti di circa il 75,4% e, nel contempo, dal ’90 ad oggi, si è registrata una crescita di redditi da capitale di oltre l’87%. Mentre i salari netti sono sotto il valore reale del 2000.

Il Messaggero 28.09.10