economia, memoria

"La lezione tedesca di Berselli", di Franco Mosconi

Quando se n’è andato, nella primavera scorsa, Edmondo Berselli aveva da poco finito il suo ultimo libro, L’economia giusta (Einaudi). Dove si legge: «Ehi, c’è qualcuno là fuori che si ricorda della New Economy, e dei suoi successi?». Arriverà mai un tempo nel quale potremo dargli una risposta all’altezza? Qualcosa come: «Sì, forse siamo diventati meno ricchi – anzi, più poveri – e la crescita non è più senza fine. Ma forse l’economia si è fatta più giusta».
Già, arriverà mai quel tempo? La domanda nasce perché quello di Berselli è un libro essenziale, rigoroso e, a un tempo, intriso di passione umana. Come ha scritto Ilvo Diamanti «quasi un invito a non dimenticare. Noi, certamente, non ci dimenticheremo di lui».
La ricchezza di quella che, pur all’interno di un’ampia produzione letteraria, può essere considerata la sua eredità morale e intellettuale, si presta a una molteplicità di letture. Tutti i quattordici brevi capitoli in cui il saggio si articola meriterebbero un commento, pieni come sono di citazioni d’autore (da Marx ai pontefici passando per Keynes e Friedman) e, soprattutto, delle riflessioni personali dell’autore. La grande storia del pensiero dell’otto- novecento e la triste cronaca dei nostri giorni si alternano in modo lieve, a tratti commovente.
Pagine che riflettono un amore per gli altri, specie i meno fortunati, coloro che sono fuori dal gioco, lontani dalle luci della ribalta.
E un’attenzione al lavoro dell’uomo e alle virtù civiche connaturate alle nostre comunità locali, dove la coesione sociale è (era?) di casa. Tutte cose che sono in forte contrasto, seguendo il filo del suo ragionamento, con l’«amoralità» di moltde transazioni finanziarie.
In questa più ampia prospettiva, mi soffermerò su due letture, fra le molte possibili nell’Italia incerta e confusa di questi anni. Chiamerò la prima di taglio «germanico», perché mai come oggi, nel nostro paese, il tema della grande Germania e delle sue eccezionali performance economiche e sociali è salito in cima all’agenda politica.
La domanda è d’obbligo: c’è solo fortuna nell’aver raggiunto quei livelli di stabilità e solidità (politica ed economica)? Si tratta solo di una positiva concatenazione di eventi sviluppatisi nei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale? Se vogliamo andare alla radice vera delle questioni dobbiamo fare un bel passo indietro; facendolo, scopriremo non solo le virtù del «modello di capitalismo tedesco» (o «germanico» o «renano») ma anche la direzione di una possibile «via d’uscita» – ecco la seconda possibile lettura del volume – dalla crisi in cui siamo intrappolati da più di due anni. È lo stesso Berselli a guidarci in questo cammino, certamente con le sue straordinarie doti intellettuali: con la ragione e con il cuore.
L’economia sociale di mercato e la dottrina sociale della Chiesa sono le due grandi fonti d’ispirazione che lo hanno animato nelle scrivere queste novantanove pagine. Svettano dunque i pensatori di origine tedesca: pensiamo ad autentici maestri del Novecento come Max Weber e Albert Hirschmann; agli «ordoliberali» della Scuola di Friburgo, Walter Eucken e Wilhelm Röpke; pensiamo soprattutto a Joseph Ratzinger: Papa Benedetto XVI è sovente citato da Berselli per la sua enciclica sociale, Caritas in Veritate, vista in assoluta continuità con la Rerum Novarum di Leone XIII e le due encicliche di Giovanni Paolo II, Laborem Exercens e Centesimus Annus. Anche sul piano più squisitamente politico, è la Germania al centro della riflessione; o, quanto meno, ne rappresenta il punto di partenza obbligato. Nel capitolo intitolato «Al centro dell’Europa» il protagonista assoluto è Konrad Adenauer, che fondò la Cdu e alleatosi con i liberali – scrive Berselli – «varò un ampio programma di riforme (…) con misure a favore del libero scambio, del sostegno al reddito attraverso l’aumento delle pensioni e dell’unificazione europea». È poi alla “Lezione di Bad Godesberg” (1959) che è dedicato un intero capitolo per gettare luce sulla genesi della «nuova Spd», capace sin da allora di approvare l’idea di un «libero mercato in cui regna sempre una effettiva concorrenza».
Costruendo su queste solide basi tutti i governi tedeschi (vuoi a maggioranza Cdu, vuoi a maggioranza Spd, vuoi anche di Grosse Koalition) hanno edificato un possente stato sociale e, in spirito di collaborazione con le realtà imprenditoriali e sindacali, dato vita alla famosa «co-determinazione» e a un assetto del mercato del lavoro che si sforza di evitare i licenziamenti.
Il sistema finanziario (in primis, banche e compagnie di assicurazione) è infine l’altro ingrediente che concorre a spiegare la ricetta del «capitalismo renano», come emerge dalle pagine che Berselli dedica, appunto, ai «modelli di capitalismo». Al riguardo, egli rilegge il dibattito che al principio del 1991 si svolse sulle pagine della rivista il Mulino, con gli interventi di Michel Albert e Romano Prodi, entrambi fautori del «renano» rispetto al «neo-americano » (o «anglosassone»).
Già, il 1991: esso potrebbe apparire assai lontano, e in effetti lo è. Ciò non solo per i quasi vent’anni trascorsi ma anche perché – all’epoca – l’Occidente si trovava già in piena euforia liberista: quella che, cammin facendo, si sarebbe addirittura trasformata in un «imbroglio», quello del «pensiero unico monetarista » e del Washington Consensus.
Poi il grande crack: siamo così condotti dalla riflessione centrata sulla Germania a una di stampo più universale, la seconda lettura di cui si diceva.
Il crollo del 2008-2009 non deve tuttavia sorprendere, è l’argomentazione di Berselli. Laddove, prima, c’era la redistribuzione operata col welfare e, poi, una gestione dell’economia che lasciava salire sia l’inflazione che il debito pubblico, c’è ora – scrive Berselli – l’invito ai cittadinirisparmiatori a indebitarsi. Il famoso sostegno della «domanda aggregata» di keynesiana memoria tenuto in piedi con i mutui subprime, le carte di credito, i derivati e tutte le altre diavolerie dell’economia di carta.
Poteva reggere questo sistema? Naturalmente no, anche se non tutto è perduto. C’è una nota di speranza che possiamo trarre dalle pagine de L’economia giusta, a condizione però di riconoscere, dopo il crollo di questi anni, il «peccato originale della cattiva distribuzione della ricchezza». Da qui l’assoluta necessità di politiche redistributive, sulle quali l’Europa – il tanto vituperato modello europeo plasmato sull’economia sociale di mercato – ha un indubbio vantaggio sugli Stati Uniti, che sono destinati a dividersi fra «ricchi e Lumpen». Per dirla con le parole di Berselli: «Un ordine sociale fondato su un’economia regolata dalla Stato e temperata dal welfare può riaffiorare nella globalizzazione ritrovando un ruolo e una posizione competitiva?». In Europa, certo, ma soprattutto nella «sua» Italia, abbiamo il dovere – morale, prima di tutto – di ricercare e costruire con tutte le nostre forze una risposta positiva a questa sua domanda, quella con la quale ci ha lasciati.

Da Europa Quotidiano 01.10.10