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"Ricercatori mai docenti", di Gilberto Capano

I ricercatori universitari stanno protestando (con diversa compattezza ed intensità) in tutte le università italiane. Protestano contro alcune norme contenute nel ddl di riforma dell’università che mettono a esaurimento il loro ruolo senza modificare il loro stato giuridico (attenzione: la scomparsa del ruolo dei ricercatori è prevista, a partire dal 2013, già dalla legge 230 del 2005). I ricercatori universitari non sono, dal punto di vista normativo (dpr 382/80), professori: a essi spettano compiti didattici di tipo integrativo. Possono però essere titolari di insegnamento (grazie ad una disposizione normativa del 1990) se accettano di farlo.
Insomma, i professori debbono insegnare per forza, perché la titolarità di insegnamenti è uno degli elementi del loro status giuridico, i ricercatori no. Il quadro normativo su questo punto è chiarissimo e indiscutibile (almeno agli occhi di un non giurista come chi scrive). Come ho già avuto modo di osservare sulle pagine di questo giornale, non vi è paese al mondo in cui chi ha una posizione a tempo indeterminato nel corpo accademico non debba anche insegnare. Nessun paese al mondo tranne l’Italia, ovviamente. Il problema però è che questa scelta (a mio giudizio insensata) non è coerentemente declinata, poiché vi è nelle norme vigenti una contraddizione palese – curiosa ed inquietante – rispetto allo status di “nondocente” dei ricercatori universitari.
Mi riferisco ai decreti ministeriali che, succedutisi dal 2001 fino all’ultimo della scorsa settimana, stabiliscono i requisiti minimi che ogni corso di laurea deve possedere per essere attivato.
Tra i requisiti richiesti dal ministero vi è quello relativo al numero minimo di docenti necessario. Per capirci: le disposizioni ministeriali prevedono che per attivare un corso di laurea vi siano almeno quattro docenti incardinati per ogni singolo anno del corso di laurea stesso e che un docente possa essere “contato” una sola volta a questo fine. Ragionevole vero? Certo. Il fatto è che a questo scopo vengono “contati” anche i ricercatori universitari! Ma come è possibile contare come forza docente chi non è formalmente, secondo la legge, un professore e non è obbligato, pertanto, a essere titolare di corsi? La questione si fa ancora più delicata se si pensa che, stando sempre alle norme, anche i ricercatori a tempo determinato (introdotti con la legge 230 del 2005) non sono docenti, ma possono essere “contati” come docenti per i requisiti minimi necessari ad attivare i corsi di laurea.
Una situazione paradossale di fronte alla quale sorgono ulteriori domande. Perché tra le tante forme di lotta che i ricercatori hanno messo in piedi non vi è stato anche un bel ricorso al Tar contro l’evidente contraddizione delle norme rispetto al ruolo e alla funzione dei ricercatori? Perché il ministero continua a far finta di non vedere questo problema? Perché molti, anche tra gli stessi ricercatori, continuano ad avere una concezione nominalistica del ruolo (mai una definizione di una posizione accademica fu meno azzeccata di quella di “ricercatore”)? Non ho risposte a queste domande, ma ho la certezza che continuare a considerare i ricercatori attuali come “non docenti” sia ipocrita. Inoltre, se il ddl Gelmini dovesse essere approvato, il problema si riproporrebbe perché, ovviamente, avremmo la figura del ricercatore a tempo determinato che, pur non essendo formalmente un docente, verrà considerato tale per decidere se un corso di laurea ha o non ha il minimo di docenti necessario all’attivazione.
La contraddizione normativa che ho appena sottolineato mostra tutte le difficoltà che nel nostro paese si affrontano quando si mette mano alle questioni universitarie.
Ed evidenzia, a mio avviso in modo emblematico, il groviglio caotico che si è sedimentato sulla questione dei ricercatori.
Al momento nessuna delle soluzioni sul tappeto sembra avere il coraggio e il senso di responsabilità necessario per uscire dal caos, dalle contraddizioni, dall’ipocrisia.

da Europa Quotidiano 02.10.10