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"ll pendolo mafioso", di Alberto Cisterna*

Il 2010 ha assunto i contorni dell’annus horribilis per la città di Reggio. Mai la ’ndrangheta aveva mostrato una simile volontà di aggressione verso le istituzioni. Certo non erano mancati i gesti eclatanti, anzi l’efferatezza di talune azioni era una sorta di macabro logo delle cosche calabresi.
Pochi lo ricorderanno, ma nelle faide degli Anni 80 erano stati deliberatamente uccisi persino bambini di pochi anni colpevoli solo di un cognome o di una parentela. Per non parlare della barbarie dei 180 sequestrati dall’Anonima.

Eppure c’è qualcosa di incolmabile tra la strage di Duisburg del 2007, con sei giovani cadaveri nelle strade tedesche, e gli eventi di Reggio del 2010. Quello era l’ennesimo episodio di una guerra tra cosche iniziata molti anni prima, la fiamma di un rogo in cui si fronteggiavano uomini resi implacabili dagli enormi profitti della cocaina. Mentre a Reggio da gennaio, ossia dal primo attentato all’ufficio retto da Di Landro, sembra in scena una trama diversa, quasi che all’impeto delle armi si sia sostituita la logica del logoramento, l’opzione per un conflitto a bassa intensità ma prolungato. Il pendolo mafioso che con sinistra precisione alterna le intimidazioni al procuratore generale con quelle al procuratore Pignatone imporrebbe letture profonde del sistema criminale calabrese e delle forze occulte in campo. Bisogna forse partire dall’acuirsi della violenza mafiosa verso le istituzioni in prossimità delle elezioni regionali calabresi. Nel 2005 l’assassinio di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale, avvelenò i pozzi della politica in Calabria. Nel 2010, prima e dopo la campagna elettorale, lo stillicidio delle intimidazioni incrina la società calabrese e mostra tra le crepe una massa gelatinosa di interessi diversi ed opachi che si sente minacciata dai processi.

E’ indiscutibile che i magistrati reggini paghino per l’azione rigorosa contro le cosche, anche se la scelta delle ’ndrine di aggredire con metodo i giudici sembra consegnarsi a strategie più evolute. Le cosche appaiono affascinate da scenari di potere e di prestigio che ormai condividono con spezzoni delle professioni, della politica e delle istituzioni; tutti insieme protesi a depredare la Calabria e le colonie di ’ndrangheta sparse nel Paese. I clan hanno esercitato un’irresistibile capacità di aggregazione verso ceti sociali e altre organizzazioni criminali, anzi la storia criminale degli ultimi cinque anni li consegna come una miscela pericolosa di spavalda violenza e di silente penetrazione nella società. La convergenza che ha cementato in questi anni gli interessi delle cosche e dei ceti parassitari, e non solo in Calabria, si sente minacciata da un’azione giudiziaria che ha, sia pure in ritardo, focalizzato gli obiettivi e approntato le strategie di contrasto alla nuova borghesia mafiosa.

Un grumo che teme l’intrusione della magistratura negli affari di Calabria.

*procuratore aggiunto nazionale antimafia

La Stampa 06.10.10