attualità, politica italiana

"Da Cavour e Garibaldi a Bossi e Berlusconi", di Eugenio Scalfari

LE CELEBRAZIONI dell’unità d’Italia che avranno il loro culmine nel marzo dell’anno prossimo hanno riportato all’attualità la storia del Risorgimento. Libri, spettacoli, film di ampio respiro, confronto di idee e d’interpretazioni. Ma dietro quest’apparenza c’è una più sostanziosa motivazione che spiega il “revival” risorgimentale ed è il problema del federalismo, fiscale e istituzionale.

Questione meridionale e questione settentrionale si sfidano tra loro e infiammano la lotta politica. La prima ha alle sue spalle centocinquant’anni di storia, la seconda è aperta da una ventina d’anni, da quando “Roma ladrona” ha dovuto stringere i cordoni della borsa perché erano venute a mancare le risorse non solo per assistere il Sud ma anche per finanziare nel Nord il tessuto imprenditoriale rinnovando la rete insufficiente e invecchiata delle infrastrutture che costituiscono il sostegno delle piccole e medie imprese.

La sfida federalista ha riproposto con rinnovato vigore la lettura del Risorgimento e dei personaggi che ne costituiscono le icone. Tre soprattutto: Mazzini, Garibaldi, Cavour; e due più defilate per la loro posizione istituzionale ma che hanno comunque avuto un ruolo importante nello svolgimento risorgimentale: Carlo Alberto di Savoia e ancora di più il suo figlio e successore Vittorio Emanuele, primo re d’Italia nel 1861. Mi sembra perciò interessante rivisitare queste vicende e questi personaggi, sia pure con la brevità imposta da un articolo di giornale.

Comincio da Giuseppe Mazzini non soltanto per ragioni di cronologia ma anche perché spetta a lui il merito d’aver posto il tema dell’indipendenza e dell’unità d’Italia – già toccati da gran tempo da poeti e letterati – sul terreno della politica e dell’azione.

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Mazzini emigrò presto, prima in Svizzera poi in Inghilterra, inseguito da mandati di cattura e dalle polizie piemontese, austriaca, francese e poi, fino a quando morì, italiana. In Italia ricomparve saltuariamente e clandestinamente salvo la breve parentesi della Repubblica romana del ’49, schiacciata dopo pochi mesi dagli zuavi di Oudinot.

Questa sua condizione di esule ha indotto molti memorialisti e scrittori che si sono occupati di lui a isolarlo dal contesto storico in cui operò, quasi che i suoi rapporti si limitassero soltanto alla rete della Giovane Italia da lui fondata negli anni Trenta del suo secolo, agli affiliati di quell’associazione e ai giovani cospiratori che comunque lo ebbero come stella polare d’insegnamento e di azione. Un maestro in tutti i sensi e i suoi discepoli, distaccati l’uno e gli altri dalla realtà politica che si svolgeva contro di loro e senza di loro; una schiera di utopisti che si esaltavano a vicenda, molti dei quali affrontarono la morte e le galere con avventure votate all’insuccesso e comunque prive di effetti sulla realtà.

Questa visione, fatta propria dal recente film di Martone che tra poco apparirà nelle sale e che è un bellissimo spettacolo, è però storicamente e politicamente lacunosa. Mazzini non fu affatto un isolato maestro allucinato da un’utopia sanguinaria e sanguinosa di complotti e di terrorismo. I complotti ci furono, i conati rivoluzionari finiti nel sangue e nella sconfitta anche; ma in quegli anni erano il solo modo per esprimere il programma d’una rivoluzione italiana fondata sulla libertà e l’indipendenza nazionale, sui diritti e sui doveri dei cittadini.

Storicamente fu il tentativo di dare un seguito agli ideali della rivoluzione francese che Napoleone aveva esportato in tutta Europa sovrapponendo tuttavia ad essi il potere militare e imperiale. Non è un caso del resto che i primi moti risorgimentali in Italia avvennero nel 1820 e ’21 per iniziativa di ex ufficiali dell’esercito imperiale: Michele Morelli e Salvati in Calabria, Santorre Santarosa in Piemonte con la complicità di Carlo Alberto.

E fu Gioacchino Murat, re delle Due Sicilie e maresciallo dell’Impero a tentare l’avventura italiana dopo Waterloo con il programma di Rimini e poi con la spedizione nel Sud conclusa con la sua fucilazione a Pizzo Calabro. Tutto ciò avvenne molto prima della fondazione della Giovane Italia, così come molto prima le “vendite” carbonare avevano costellato l’Italia con una rete clandestina. La rivoluzione napoletana del 1799 fu il primo segnale di questo lungo percorso risorgimentale e pagò quel tentativo con migliaia di morti e secoli di galera per i sopravvissuti. Non fu dunque Mazzini il primo a tentare insurrezioni che causarono morti e galera.

Quanto al suo isolamento politico, ricordo che i suoi contatti con Garibaldi furono intensi anche se spesso discordanti fino al 1860; ma ci furono anche contatti con Carlo Alberto e con Vittorio Emanuele ai quali scrisse lettere vibranti in occasione delle due guerre d’indipendenza intraprese dai Savoia. Infine fece parte dell’Internazionale, dove ebbe polemiche e scontri con Marx, Engels e Bakunin sulla lotta di classe e sulla rivoluzione sociale che Mazzini accettava nella versione di Pisacane ma respingeva in quella del Manifesto comunista. Un maestro isolato che mandò inutilmente al macello centinaia di giovani infatuati? Proprio non direi.

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Si discute se la figura decisiva del Risorgimento e dell’Unità sia stata quella di Garibaldi o del conte di Cavour. Discussione oziosa perché quelle due personalità ebbero lo stesso rilievo e furono egualmente indispensabili. Mazzini aveva gettato il seme, Garibaldi e Cavour coltivarono l’albero e ne fecero maturare i frutti. Senza Garibaldi l’Italia unita non ci sarebbe stata; senza Cavour non ci sarebbe stata l’indipendenza nazionale né la fine del temporalismo papale.

Aggiungo: senza Carlo Alberto non ci sarebbe stato lo Statuto (il re delle Due Sicilie concesse anch’egli una Costituzione nel ’48 ma poi la ritirò) e senza Vittorio Emanuele non ci sarebbe stato Cavour né Roma capitale. Quasi tutti gli storici del Risorgimento hanno rilevato che quel moto fu un fatto di minoranza, un sentimento elitario e “letterario” che si incrociò con gli interessi concreti di un ceto borghese che stava emergendo soprattutto in Lombardia e in Liguria. Molti di loro hanno anche osservato che mancò la partecipazione popolare cogliendo in questa mancanza la causa della fragilità democratica italiana.

Non sono d’accordo con questa diagnosi. Non già sulla constatazione della mancata partecipazione popolare, che è un dato di fatto incontestabile. Ma la partecipazione popolare non c’è mai stata nelle società contadine confinate nella povertà, nell’isolamento e nell’analfabetismo. Le rivoluzioni sono state sempre e dovunque fatti di minoranza. La pubblica opinione si forma come fenomeno culturale. La rivoluzione dell’Ottantanove è un fatto di minoranza e così quella russa del 1917. Ma fatti di minoranza furono anche la rivoluzione di Cromwell e poi la guerra d’indipendenza americana guidata da Washington. Le società contadine sono state spesso agitate da procellose sommosse dovute alla povertà e alla fame. Sommosse, non rivoluzioni che inaugurano nuove epoche e nuove istituzioni.

Così il Risorgimento. Le masse furono assenti. Ma la perenne fragilità della nostra democrazia non deriva da quell’assenza ma dal fatto che l’educazione delle plebi, come allora si diceva con aulico linguaggio, tardò e fu comunque incompleta. Le masse cattoliche furono educate al pane celeste ma assai poco al pane terreno che per molti anni fu anzi considerato un cibo infetto dal quale astenersi. Quanto alle masse socialiste, furono educate a reclamare sacrosanti diritti ma non riuscirono a coinvolgere né la popolazione contadina né quella artigiana che costituivano il tessuto portante della popolazione attiva. I luoghi di quell’educazione furono soltanto le industrie e il proletariato operaio che in esse formò la propria identità sociale.

Quanto alla critica contro la centralizzazione del potere, anche questo a me sembra un falso problema. I grandi Stati nazionali europei sono nati tutti dalla concentrazione del potere. Così la Francia, così l’Inghilterra, così la Prussia, nocciolo dell’unità tedesca. Il potere centrale è stato un elemento di modernità, Tocqueville ne fece l’analisi perfetta nell’Ancien Régime et la Révolution.

L’aspetto negativo non è stato dunque la centralizzazione ma la burocratizzazione. Sono due elementi distinti e sarebbe grave errore considerarli un “unicum”; molto spesso i poteri locali sono ancor più burocratici di quelli centrali e questo è vero anche nell’Italia di oggi. Dovremo quindi impegnarci in un federalismo che preservi e anzi compia un disegno nazionale ancora largamente lacunoso, smantelli la burocratizzazione centrale e impedisca quella regionale e comunale già ampiamente presente. Si tratta dunque d’un cammino lungo, appena iniziato e purtroppo sotto cattivissime stelle.

da www.repubblica.it