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"Un colpo al cuore del calcio malato", di Gianni Mura

Bruttissimo colpo al cuore del calcio. Il cuore non è la pancia e neanche la testa. È voglia di godersi uno spettacolo, è passione, è saper stare con gli altri. Poco importa sapere che Italia-Serbia avrà come risultato un 3-0 a tavolino e che la Serbia, per colpa dei suoi tifosi peggiori, sarà probabilmente esclusa dalla competizione. Importa che contro l’ottusità e la violenza non si scorga una linea di difesa. Che la festa di Genova sia rinviata a data da destinarsi. I bambini in maglia azzurra e anche gli altri, quelli serbi con la maglia bianca e rossa, avevano gli occhi tristi e pieni di domande, cui qualcuno dovrà rispondere.

Una sola riguarda l’Italia: come ha fatto a entrare allo stadio, tanto più dopo i tafferugli in città che hanno coinvolto lo stesso pullman della nazionale serba e particolarmente il portiere Stojkovic, che s’è chiamato fuori, quella cinquantina di figli di Arkan, attrezzati con tutto il necessario per far saltare la partita? Il capo, un grassone a volto coperto, maglietta nera con teschio e numero 28 tatuato sul braccio, dev’essere molto fiero di sé. Il resto è noto, forse sottovalutato. Nell’est europeo, dalla Polonia all’Ungheria, dalla Serbia alla Russia, negli stadi stanno crescendo i gruppi ultranazionalisti e neonazisti. Non ci sarà molto da divertirsi, ai prossimi europei. Altri sport hanno saputo isolare e guarire
il fenomeno della violenza. Il calcio no, e non è da discutere ora l’impegno (relativo o scarso). Ma il risultato è quello di Marassi. Un non risultato. Una partita sequestrata da un gruppo di imbecilli che crede di stabilire cosa sia l’onore o il disonore di un Paese. Beccare 3-1 in casa dall’Estonia è un disonore, di qui la marcia su Marassi e nell’intervallo, giusto per tenersi in allenamento, un po’ di botte sulla giornata belgradese del Gay Pride.

Basta un gruppetto di questi black block senza uno straccio d’ideologia per fermare una partita? Sì. Dopo oltre mezz’ora di ritardo sul fischio d’inizio si è giocato per 5′, un fumogeno è finito vicino a Viviano e al quel punto l’arbitro scozzese ha deciso che non c’erano più le garanzie di sicurezza per continuare. Difficile dargli torto, anche se ricordo situazioni peggiori. L’unica alternativa era sloggiare i tifosi peggiori, ma la polizia s’è limitata a guardarli dal campo. Irrompere in quel settore avrebbe causato guai peggiori e l'”arrivano i nostri” ormai si vede solo al cinema.

La federcalcio serba non pare molto preoccuparsi dei galantuomini che espatria, sia pure verso uno stadio, ma anche questa è un’osservazione marginale. Si dovevano ricordare con un minuto di silenzio i nostri militari morti nel corso di una guerra vera. Da spettatori, con diversi stati d’animo, di quella che doveva essere una semplice partita di calcio, abbiamo man mano visto la solita guerriglia da pallone, ma non solo, non sottovalutiamo le dimostrazioni di orgoglio cetnico, le bandiere bruciate. Il grassone tatuato e i suoi amici questo hanno provato a dirci: che il calcio per qualcuno o molti è anche politica, roba sporca, esibizione di muscoli e slogan. Non è pace, non è fairplay, non è etica. Nel caso lo avessimo dimenticato, grazie di avercelo ricordato.

La Repubblica 13.10.10