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«Per non rinunciare al futuro», appello della Rete29Aprile

Il sistema scolastico e universitario italiano è in grave pericolo. Un pericolo serio, reale, non dovuto al dilagare della tv spazzatura, non provocato dal terrorismo islamico e stranamente neppure causato dai mutamenti climatici; la scuola e l’università italiana sono a rischio perché si tagliano drasticamente le risorse che, pur tra mille difficoltà, hanno permesso fino a oggi il loro funzionamento e garantito l’esistenza di insegnanti e ricercatori convinti di star svolgendo un compito importante.

Forse è per questo senso profondo di autostima e di fiducia verso se stessi che insegnare non è un lavoro come un altro. Fare ricerca non è una comoda pratica per timbrare il cartellino e poi subire un lavoro più o meno tollerato o detestato: è spendere sogni, anni, fatica e sudore per studiare, interpretare, valutare, elaborare ipotesi, fare confronti, trasmettere conoscenze e gli strumenti per elaborarle.

In tutti i Paesi dell’Unione europea l’insegnamento, dalle scuole materne alle università, è considerato attività degna del massimo rispetto, in quanto riserva strategica di competenze e sapere; nel nostro Paese l’insegnante è screditato agli occhi di un’opinione pubblica resa sempre meno responsabile verso il futuro, il docente universitario viene visto come un comodo elefante parcheggiato in una placida savana, mentre il ricercatore viene considerato un tipo strambo prossimo al disadattamento.

Non è esagerazione dare queste definizioni, sono le stesse che possono spiegare il progetto di mutazione antropologica del Paese che vari governi hanno portato avanti nel tempo. Prima, con la campagna di tagli indiscriminati all’istruzione, all’Università e alla ricerca avviata nel giugno 2008; poi, con il DdL per l’università che, in questo momento, sta arrancando alla Camera, dove gli è stato imposto un salutare “stop”: una riforma strategica non si può fare senza risorse.

In totale, alla formazione scolastica e universitaria italiana vengono sottratti in cinque anni 10 miliardi di euro. Si tratta di una cifra paragonabile all’entità degli aiuti inviati in Italia col Piano Marshall dal 1948 al 1952. Quattro anni che allora cambiarono in meglio un Paese devastato dalla guerra, cinque anni che oggi possono distruggere quello che rimane di un sistema scolastico e universitario che un tempo era reputato tra i migliori al mondo.

Un piano Marshall al rovescio che rappresenta il più complesso e strutturato attacco al sistema dell’istruzione inferiore, media e superiore attuato in Italia dalla nascita dello Stato unitario. Una campagna che da un lato mira a dequalificare i docenti accorpando le classi di insegnamento – nel caso della scuola media inferiore e superiore – e dall’altro a colpire le università come centri di ricerca e studio. Viene infatti accentrato il controllo degli Atenei nelle mani dei rettori e dei Consigli di amministrazione; si precarizzano ulteriormente i canali di accesso alla docenza; ogni rappresentatività negli organi di governo degli atenei viene ridimensionata; viene prevista la possibile trasformazione delle università in fondazioni dalla natura giuridica ambigua, libero campo di speculazione e di profitto per consorterie di furbetti e rapaci. Infine, non vengono previste assunzioni per sostituire i pensionamenti e vengono lasciate inalterate retribuzioni che, soprattutto nel caso dei «giovani» ricercatori appena assunti, rasentano il ridicolo per un lavoro di alta specializzazione: 1.200 € al mese. Insomma, l’Università e la Scuola vengono relegati in un ruolo secondario, mentre in tutta Europa, si combatte la crisi investendo in istruzione e ricerca per garantire un futuro.

I firmatari di questa lettera denunciano questo scempio scellerato a tutti i cittadini coscienti del ruolo fondamentale che la scuola e la università hanno giocato nella formazione di ciascuno di loro, richiedono al governo di recedere dall’azione di impoverimento dell’istruzione e ricerca pubblica; chiedono una riforma del sistema universitario condivisa e ragionata e non improvvisata su logiche aziendalistiche fuori luogo, dicono sì alla tutela della professionalità e al riconoscimento dei meriti ma chiedono anche l’adeguamento delle retribuzioni ai livelli degli insegnanti e ricercatori dei Paesi dell’Unione europea.

Un paese nel quale chi insegna o ricerca è costretto ad andarsene o vergognarsi di ciò che fa, perché sottovalutato, denigrato e offeso proprio da chi dovrebbe garantire la sua professionalità, non è un paese né per giovani né per vecchi: è un paese di anime morte.

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