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"Ecco perché le tasse non caleranno", di Stefano Lepri

Cinque volte negli ultimi 15 anni l’Italia c’era riuscita. Non è quindi inattingibile una riduzione annua del debito pubblico nella misura che il presidente della Bce Trichet suggerisce all’area euro di adottare come rigida regola per il futuro. Però, a che condizioni c’eravamo arrivati? In quattro casi sotto governi di centrosinistra (1997, 1998, 2000, 2007), in uno sotto un governo di centrodestra (2002), ci aiutarono o manovre di bilancio molto pesanti o annate grasse di crescita dell’economia; e, marginalmente, anche incassi da privatizzazioni.

Dalla trattativa europea che riprende oggi a Lussemburgo la regola sul debito probabilmente non uscirà tanto severa quanto la Bce vorrebbe.

Giulio Tremonti si dice già sicuro che in ogni caso non entrerà in vigore prima del 2016, ossia in una data in cui ci saremo sicuramente lasciati dietro le tristi urgenze della crisi. Tuttavia, in un modo o nell’altro, un po’ più o un po’ meno, il Patto di stabilità dell’euro sarà reso più stringente di quanto è adesso. Per un Paese nelle condizioni dell’Italia in parole povere questo significa che nell’arco del prossimo decennio, e anche dopo, un calo delle tasse ce lo possiamo soltanto sognare.

Non si discute di fantomatiche «manovre aggiuntive» da fare in un arco di tempo breve. Questo del debito, comunque venga fuori dal negoziato europeo, è un discorso di prospettiva. Anzi, un nuovo sistema di regole ben fatto, credibile, per il futuro, può addirittura risparmiare sacrifici. L’euro non può più funzionare secondo il principio dello scaricabarile (o del free riding, per dirla nell’inglese degli economisti). I singoli Stati non possono fare i furbi pensando che l’effetto delle proprie trasgressioni sarà compensato dalla rettitudine di altri Stati. Per questo motivo i mercati verrebbero placati in modo più duraturo da un nuovo Patto di stabilità severo che da un accumulo affannoso di misure di austerità immediate.

All’ingresso nell’euro, 12 anni fa, il Belgio era in condizioni simili all’Italia; seguendo un percorso come quello che Trichet ci indica, ora è classificato tra i Paesi solidi (pur essendo assai più diviso al suo interno, tra due popoli di lingua diversa, di quanto sia l’Italia fra Nord e Sud). Per noi, ricordando i casi delle cinque annate in cui il traguardo l’abbiamo raggiunto, ridurre il debito significa soprattutto porsi il problema di come tornare a una crescita economica più sostenuta, e non farsi illusioni. La spesa pubblica dovrà per forza essere ridotta (benché destra e sinistra possano continuare ad avere idee diversissime su dove fare i tagli) e la pressione fiscale non potrà calare (benché si possa fare moltissimo per distribuirla meglio, ad esempio combattendo l’evasione, colpendo di più le rendite e meno le imprese e il lavoro).

Il presidente della Banca centrale europea ci consiglia di portare il bilancio dello Stato in pareggio. Facendo la più realistica previsione di bilanci in deficit dell’1,5-2%, un calo significativo del debito è possibile se la crescita tornerà verso il 2% annuo. Se proseguiamo con le tendenze attuali – deficit che tutt’al più ritornerà sotto la soglia del 3% e crescita media del prodotto lordo all’1% annuo – il debito resterà all’incirca dov’è, con i mercati sempre pronti a saltarci addosso. Il caso del Giappone conferma che i Paesi dove l’alto indebitamento pubblico è compensato da bassi debiti delle famiglie e delle imprese sono meno instabili, come Tremonti sostiene a proposito dell’Italia. Ma Trichet vede difficile tradurre questo fattore in numeri precisi, in «criteri chiaramente definiti, senza margini di discrezione dovuti a circostanze eccezionali, e senza deroghe»; una formula contorta dai compromessi, fa capire, non offrirebbe la credibilità necessaria.

La Stampa 18.10.10