cultura

"Oh mio Verdi, sì bello e perduto", di Alberto Mattioli

Il nostro musicista più popolare potrebbe essere un veicolo eccezionale per esportare la cultura e il gusto italiani. Ma ciò non accade, ecco perché.
Qui non si discute di Verdi parmigiano (senza entusiasmo: i suoi compatrioti se lo sono annesso, ma lui non li amava poi tanto) ma di Verdi come il parmigiano, inteso come formaggio. O come i tartufi o il Barolo o gli spaghetti e la pizza, beninteso quelli veri e non taroccati. Non sembri irriverente nei confronti di uno dei pochi Padri della Patria.

Indiscusso e indiscutibile e tuttora in servizio permanente effettivo. Come il cibo, Verdi in particolare e l’opera in generale sono una componente dell’identità nazionale, una delle poche ancora vive e vitali sia all’interno che all’estero. Insomma, a parte il suo valore artistico, il melodramma è importante non solo perché racconta a noi italiani come siamo fatti, ma anche perché racconta come siamo fatti a chi italiano non è. E dà di noi un’immagine lusinghiera, tutto sommato preferibile alla solita mafia.

La notizia è che il profeta di Slow food e di Terra madre, l’uomo che ha fatto del cibo uno dei temi caldi del dibattito culturale, uno degli «eroi del nostro tempo» incoronati da Time, insomma Carlin Petrini, è stato folgorato sulla via di Busseto. Ma dall’altra parte del mondo: assistendo a una Traviata a Seul, ha realizzato e raccontato quanto l’opera sia tuttora un veicolo formidabile e poco sfruttato per l’immagine, la cultura e la lingua italiana nel mondo. Verissimo: a quattro secoli dalla sua invenzione, si tratta di un prodotto «made in Italy» che continua a vendersi benissimo a tutti e dappertutto. Così ieri sera Petrini ne ha discusso nel suo feudo di Bra con il sovrintendente del Regio di Torino, Walter Vergnano, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, convocato per parlare dei 150 anni dell’Italia unita, e unita anche dai cori verdiani («e infatti – chiosa – io detesto il melodramma ma, come ogni italiano, quando sento Va’ pensiero mi commuovo pensando a questa povera Patria sì bella e perduta») e il soprascritto.

Ora, che l’opera lirica sia vitalissima in tutto il mondo, tranne nel Paese che l’ha inventata, è un dato di fatto. Che l’opera parli italiano, idem. Prendete un giorno a caso, per esempio oggi, 19 ottobre 2010. Secondo il benemerito motorino di ricerca operabase.com, stasera vanno in scena 58 recite d’opera in 47 città di 21 Paesi di cinque continenti (manca solo l’Africa). Di queste 23, poco meno della metà, sono opere italiane. Guidano l’hit parade Verdi e Puccini, primi a pari popolarità con sei titoli ciascuno, seguono Rossini e Mozart con tre a testa, poi Mascagni, Monteverdi, Mayr, Haendel e Sargenti con una (stupisce, ma è un caso, l’assenza di Bellini e Donizetti, di cui peraltro si dà ad Amburgo La fille du régiment, che però è un’opera francese, benché scritta da un bergamasco. Mentre invece il Mozart delle Nozze di Figaro è arcitaliano). Proprio Petrini racconta dell’entusiasmo che accompagnò quella Traviata coreana, che era poi un saggio di conservatorio con interpreti locali: «Sembravano tutti impazziti, applausi e lacrime a non finire. Era un pubblico di giovani, un’atmosfera da concerto rock». Verdi globalizzato? «Ma italianissimo, perché canta nella nostra lingua. Quindi un veicolo straordinario di diffusione non della musica italiana, ma della civiltà italiana. Straordinario, ma poco usato».

In effetti, l’Italia, intesa come Stato, brilla per la sua assenza. Con gli ultimi tagli fatti e quelli da fare, si corre davvero il rischio che l’opera, che in quattrocento anni è sopravvissuta a occupazioni straniere, epidemie, carestie, incendi, bombardamenti, pestilenze e due guerre mondiali, alla fine sia ammazzata da una legge finanziaria. Tremonti non le accorda che poche ore: l’attuale agonia del Carlo Felice è solo l’anteprima, poiché il peggio deve ancora venire, e verrà per tutti. Quindi nel 2011 questo Paese schizofrenico celebrerà insieme il centocinquantesimo compleanno dell’Unità d’Italia e il funerale della più italiana delle arti italiane (quanto poi al fatto che la seconda abbia contribuito alla prima, basta dare un’occhiata alla bella mostra romana in corso sui pittori del Risorgimento. Le patrie battaglie sono raccontate come altrettante scene di melodramma: ci sono cori di bersaglieri, innamorate trepidanti a casa a cucire tricolori come primedonne, Garibaldi è un tenorissimo, l’austriaco un perfido baritono. Ma già Visconti, in Senso, aveva capito tutto…).

Però l’opera, così bistrattata in patria, non viene nemmeno sfruttata per promuovere l’Italia nel mondo. Basta aver fatto qualche tournée con la Scala, il Regio o il Maggio e aver parlato con qualche diplomatico italiano in loco per sapere che nulla come lo sbarco di un nostro grande teatro rilanci tutto il made in Italy e rafforzi l’idea, che è poi l’unico petrolio di cui disponiamo, che il nostro sia davvero il Paese più bello, quello dove si vive meglio, si mangia meglio, ci si veste meglio. «E invece – spiega Vergnano, che ha appena portato il Regio di Torino a fare tre settimane di sold out in Giappone e Cina – è stato abolito nel bilancio del ministero dei Beni culturali il capitolo di spesa che serviva a finanziare le tournée all’estero: mica tutto, intendiamoci, solo i voli. Adesso basta: tagliato anche quello». Non a caso, un mese fa è deflagrato Zubin Mehta, che deve andare con i suoi fiorentini in Giappone e ancora non sa se ci saranno i soldi per farlo. Una delle voci che urlano nel deserto e chiedono di ripensarci, prima di abbassare definitivamente il sipario.

La Stampa 19.10.10