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"Ripensiamo il ddl università", di Eugenio Mazzarella*

E’ stato difficile fin qui far capire la ragionevolezza dei dubbi sul ddl Gelmini. Ora la conclamata assenza di copertura finanziaria anche sulle poche concessioni fatte in commissione spero abbia fatto comprendere che, condividendo l’urgenza di una riforma, avere un’idea diversa di quale riforma realizzare, non significava essere “un guerrigliero del calendario” votato a “sabotare” con lo strumento parlamentare degli emendamenti un bisogno del Paese. L’ingenerosità di questo giudizio di Guido Gentili sul Sole 24 Ore di qualche giorno addietro è stata un’ingenerosità diffusa per obiezioni condannate in contumacia. Forse ora si possono rappresentare le ragioni di chi fin qui si è opposto al ddl Gelmini.
L’annunciata riforma è una ristrutturazione al ribasso del sistema dell’università: ci sono solo meno risorse, meno organico docente, meno tutto, e nessuna vera idea di università, con un disimpegno significativo dal sostegno pubblico. Alla meglio il progetto del Governo è trasformare una Mercedes asmatica, l’università italiana, di cui si ritiene non poter pagare i costi di riparazione, in una Smart con cui affrontare il confronto con i Paesi nostri competitori. Si riduce l’incidenza sul Pil del comparto università e ricerca, in assoluta divergenza con quanto si fa in Europa. La conseguenza è che si rinuncia a implementare le situazioni di eccellenza, pur presenti, nel quadro di un innalzamento generale della qualità media degli atenei, e si punta minimalisticamente a sganciarne alcuni (quelli “eccellenti”) con deroghe alla governance, e con risorse contrattate caso per caso con il ministero. A tutti gli altri è proposto un regime di autonomia sorvegliata insieme dell’abbandono finanziario e dell’occhiuto, e disfunzionale, controllo sulla loro autonomia di programmazione competitiva. Ci si rassegna ad una nicchia di serie A, e ad una rete, da cui saranno drenate le già scarse risorse, di serie B.
Questo spiega il venire meno del ddl agli stessi principi, del tutto condivisibili, enunciati all’articolo 1: autonomia, merito, valutazione, responsabilità. A ciò è funzionale un drastico ridisegno degli organici non solo al ribasso ma in senso apicale: l’idea di pochi ordinari più tanti (relativamente!) associati, di fatto equivalenti ai vecchi assistenti ordinari di ruolo, più i ricercatori precarizzati nel tempo determinato (gli assistenti incaricati degli anni 70) e speranzosi di divenire associati=assistenti, è il progetto sotteso al ddl Gelmini, con l’illusione che questo dia efficienza ad un sistema umiliato nel suo capitale umano.
Restando all’impianto della riforma, c’è in essa un’insostenibile ricorso alla delega su materie decisive, un abnorme implementazione normativa di ostacolo a qualsiasi gestione agile ed efficace dell’autonomia in un quadro di assunzione dei vincoli responsabilizzanti di una valutazione “terza” del sistema, l’assoluta assenza di concreti impegni per il merito e il diritto allo studio, una pericolosa contraddizione, per assenza di risorse, nel modello proposto di selezione dei docenti tra chi aspira a entrare nei ruoli dell’università e chi già vi opera.
Il modello di selezione dei docenti del ddl Gelmini, innestato senza risorse sugli attuali organici, mette in contraddizione gli impegni per i nuovi docenti e le aspettative di chi lo è già. Con le poche risorse a disposizione degli atenei si dovrà scegliere se finanziare i contratti di ingresso a tempo determinato, perché non siano precariato senza sbocco, ovvero le legittime aspettative di carriera dei ricercatori e associati già in ruolo che si abilitino.
Da questa criticità si esce prevedendo, per un congruo periodo transitorio, un piano di finanziamento straordinario sia per la tenure track che per le chiamate nei ruoli di ricercatori e associati che conseguano l’abilitazione nazionale. Così come pure, per rendere effettiva la mobilità dei docenti, è necessario un congruo finanziamento della mobilità dei docenti tra atenei, e in ingresso nel sistema di ricercatori e docenti in posizioni equiparabili all’estero.
Senza risorse questa riforma non sarà in grado di sopravvivere neanche ai suoi errori. Con lo slittamento del provvedimento, ora c’è un mese di tempo. Usiamolo.

*L’autore è deputato del Pd e membro della commissione Cultura alla Camera

Il Sole 24 Ore 17.10.10