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Istruiti e al Nord: l'astensione si fa «politica»

Da molti anni l’astensionismo in Italia è in crescita. Fino al 1976 la partecipazione elettorale è rimasta stabilmente sopra il 90%, poi ha cominciato a calare e il declino non si è più fermato. Tuttavia fa impressione vedere un dato come quello pubblicato ieri su questo giornale in cui si stima – sulla base di sondaggi recenti – che più del 40% degli elettori non si recherebbero alle urne se si andasse a votare oggi. Nel 2008 sono stati meno della metà. È molto probabile che si tratti di un dato sovrastimato. Un conto è una dichiarazione di non voto fatta oggi a freddo e un altro conto è la decisione di voto presa nel mezzo di una campagna elettorale che – se si svolgesse nei prossimi mesi – avrebbe le caratteristiche di un referendum sul governo Berlusconi e sul ciclo politico associato alla figura del Cavaliere. Ma sovrastimato o no che sia questo dato esso sta certamente ad indicare una profonda e crescente disaffezione nei confronti dei partiti e soprattutto di quelli più grandi. Senza distinzione tra chi ha responsabilità di governo e chi sta all’opposizione. Il Pdl perde consensi ma il Pd non ne trae alcun beneficio. La delusione nei confronti del governo si traduce in astensione e non in un voto a sinistra.
La crescita attesa dell’astensionismo è ancor più significativa perché sta cambiando anche il profilo socio-demografico di coloro che non vanno più a votare. In passato erano gli elettori socialmente più periferici, donne, giovani, anziani, persone con un basso titolo di studio, residenti nelle aree più marginali. Alla base della decisione di non recarsi alle urne c’era il senso di lontananza dalla politica, il disinteresse. Da qualche tempo non è più così. Su questo punto i dati dei sondaggi post-elettorali di Itanes sono illuminanti. Tra le elezioni del 2008 e quelle del 2006 si sono annullate le differenze tra uomini e donne. Nel 2006 si era astenuto il 6% degli uomini contro il 10% delle donne. Nel 2008 per entrambi il valore è stato introno all’11%. Ma ancora più interessante è il dato relativo al titolo di studio. Nel 2006 solo il 2,9% dei laureati non aveva votato. Nel 2008 sono stati il 9,8%. Un dato che trova conferma anche nei sondaggi più recenti. Tra gli elettori meno istruiti la percentuale dei non votanti è ancora più alta (il 14,1% nel 2008), ma qui la crescita dell’astensionismo rispetto al 2006 è stata inferiore con la conseguenza che oggi il divario tra le due categorie di elettori si è fortemente ridotto. E lo stesso si può dire in relazione all’età. La percentuale di non votanti è raddoppiata tra gli elettori nati dopo il 1965 mentre è rimasta stabile tra quelli nati prima del 1946.
È evidente quindi che il fenomeno del non voto sta cambiando. Accanto ai fattori più tradizionali di carattere sociodemografico sono emersi fattori di carattere più specificamente politico. Si vota sempre di meno perché anche gli elettori più istruiti e meno lontani dalla politica sono “stufi” di questa offerta politica. Nel 2008 sono stati soprattutto i partiti di sinistra a farne le spese. La smobilitazione elettorale ha colpito più loro e soprattutto i partiti della Sinistra Arcobaleno che hanno perso circa un terzo dei loro elettori verso il non voto. I dati di oggi dicono che il fenomeno colpisce sia il Pd che il Pdl in modo simile. In altre parole è diventato meno asimmetrico. Quanto al suo profilo territoriale, anche su questo piano le tendenze stanno cambiando. Si continua a votare di più nelle regioni del Nord e del Centro. Rispetto alle regioni del Sud il divario è sensibile ma questo è vero soprattutto per le elezioni politiche. Come si vede nel grafico in pagina non è più vero a livello di elezioni regionali, dove i valori sono molto simili. Ma anche per le elezioni parlamentari si può notare che al Nord il calo della partecipazione elettorale tra 2008 e 2006 è stato inferiore al Sud rispetto al Nord. E anche questo rispecchia la tendenza generale che vede l’astensionismo crescere maggiormente tra gli elettori più dinamici e nelle regioni più dinamiche del Paese. Non è un buon segno.

Il Sole 24 Ore 22.10.10