cultura

Se i musei dimenticano l´arte per inseguire il mercato

Non possiamo ridurre a una semplice differenza di gusti la mostra di giocattoli giapponesi contemporanei, di gran marca e di gran prezzo, in corso al castello di Versailles, trattato come una vetrina pubblicitaria. Questa confusione di generi (scioccante per gli uni, intrigante per gli altri) è rivelatrice di una deriva di ben più ampio respiro e che travalica i confini dell´estetica, anche se l´estetica c´entra parecchio al riguardo.
Nel 1992, ne Lo Stato culturale: una religione moderna, denunciai gli inizi di questa deriva. In nome del nobile obbiettivo della democratizzazione culturale, lo Stato, non contento di vegliare sul patrimonio nazionale affidato alla sua tutela, si prendeva già allora per un mecenate d´avanguardia. E si metteva a sovvenzionare e dare ospitalità al rock, al rap, ai graffiti e ad altre importazioni della cultura di massa americana, avanguardista per definizione.
Il successo commerciale di queste irresistibili varietà, peraltro, era già pienamente assicurato dai quei potenti diffusori privati che sono le vedettes dell´arte cosiddetta “contemporanea”, attraverso i loro non meno abili galleristi e le loro famigerate “Fiere”.
Koons, dopo Versailles, è stato esposto nella galleria parigina Noirmont. Presto vedremo Murakami esposto nella galleria Gagosian, appena sarà inaugurata a Parigi. E non mancano i musei pubblici dedicati all´arte cosiddetta «contemporanea».
Nel 1996, ospite dell´American Academy a Roma, scoprii che questa abdicazione dello Stato (nel senso europeo) a tutto vantaggio del mercato era un fenomeno in fase avanzata anche in Italia. All´ambasciata americana venni presentato all´uomo che Romano Prodi avrebbe scelto come ministro dei Beni culturali, Walter Veltroni. Questi, molto calorosamente, mi disse: «Ah! L´autore de Lo Stato culturale! Sono d´accordissimo con lei! È l´uovo di Colombo, non abbiamo il petrolio, ma abbiamo un patrimonio culturale!». Corressi questa lettura arlecchinesca del mio pensiero in un´intervista su La Repubblica, ma Veltroni diventò comunque ministro, e inaugurò la deriva commerciale (sfilate di moda e concerti rock al museo), ma anche la confusione semantica tra patrimonio culturale e intrattenimento di massa, l´una e l´altra rimaste fino ad allora latenti nell´espressione italiana «beni culturali», all´apparenza più innocente della nostra «affari culturali», ma altrettanto esposta al rischio di sbandamenti in direzione del mercato, mobiliare o immobiliare. Non al punto, comunque, di esporre Damien Hirst a Villa Borghese…
Da allora, stando a quanto scrive Salvatore Settis nel suo saggio Italia S.p.A, L´assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002-2005) e nei suoi articoli su La Repubblica, le cose in Italia non hanno fatto che peggiorare. Una legge approvata dalla coalizione di governo berlusconiana ha seriamente danneggiato il principio di inalienabilità del patrimonio nazionale italiano, pubblico o sotto la tutela dello Stato. La resistenza di Settis, e di molti altri schierati al suo fianco sulle pagine dei giornali, è quantomeno riuscita, al momento, a limitare gli effetti dello stereotipo «patrimonio culturale = giacimento culturale», un pensiero unico di cui si riempiono la bocca burocrati, organizzatori di convegni e politici di destra e di sinistra. (…)
Il problema quindi non si riassume certo in un liberale «mi piacciono» o un reazionario «non mi piacciono» Murakami o Koons sotto i soffitti di Versailles. È qualcosa che chiama in causa la nostra idea dello Stato e di chi lavora per lo Stato, la nostra concezione del patrimonio nazionale e di chi lo conserva, e la nostra filosofia dei rapporti che gli uni e gli altri devono intrattenere con il settore privato e con il mercato della cultura di massa.
Lo Stato non ha la stessa vocazione in Francia (e in Italia) e negli Stati Uniti. Settis ha citato un caso eclatante, quello del villaggio di Oraibi, che risale all´XI secolo, nella riserva degli indiani Hopi, in Arizona, che è praticamente scomparso in questi ultimi anni nell´indifferenza generale, perché non si è trovata una fondazione privata disposta a finanziare la sua trasformazione in ecomuseo. Eppure si tratta del luogo dove il grande storico dell´arte Aby Warburg aveva avuto la rivelazione dell´ultima arte dionisiaca esistente. Il sistema americano dei landmarks, abbandonato agli enti locali e all´iniziativa privata, non tiene minimamente conto del contesto storico, urbano o paesaggistico, peraltro infinitamente più rarefatto negli Stati Uniti che nella vecchia Europa. L´Inghilterra è afflitta dalle stesse carenze, o quasi. Si vantano a ragione i meriti recenti del National Trust, ma si omette di ricordare che la mano invisibile del mercato immobiliare inglese, tra il 1945 e il 1974, ha demolito senza intralci la bellezza di 1153 country houses, spesso di grande valore storico e artistico. Eppure, nessuno espone Tracey Emin alla Frick Collection o al British Museum.
In Francia e in Italia, la tutela del patrimonio culturale esiste per educare il suo proprietario collettivo mediante i capolavori. Ciascuno è libero di sbuffare e mettersi a ridere. Tante nazioni, in Europa, in America Latina e in Asia, si ispirano a questo modello, senza riuscire sempre a imitarlo. Il fatto è che nelle due «sorelle latine», malgrado le forti diversità storiche, il sentimento di identità e di appartenenza nazionale, l´attaccamento a una memoria storica e alle sue stratificazioni successive sono inconcepibili senza un riferimento visivo, tangibile e inalienabile, a un patrimonio pubblico (e privato, ma sotto tutela pubblica) che quei sentimenti incarnano permanentemente e localmente. Questo patrimonio monumentale e museale forma un tessuto connettivo dove tutto si tiene. Solo lo Stato, con la sua legislazione e il suo personale di esperti certificati e consacrati al bene comune, è in grado di preservare la coerenza, l´integrità, il senso e l´insegnamento.
Ha tutto l´interesse a farlo, essendo questi i fondamenti del legame civico e del sentimento nazionale, alla base dello Stato stesso e importanti quanto la lingua. Lo Stato tradisce se stesso e smantella se stesso se, dimenticando i suoi interessi fondamentali, comincia a vedere il patrimonio che ha il compito di conservare, di accrescere e di far apprezzare e comprendere al maggior numero di persone, nell´ottica del rendimento economico, della venalità finanziaria e dello sfruttamento a fini diversi dall´interesse civico e pubblico che deve servire.
Il denaro non ha odore né patria, ma la poesia, le arti e i ricordi sì. È più che mai necessario rammentarlo oggi. Infatti non si tratta più, come un tempo, di approfondire il sentimento spontaneo di appartenenza nazionale attraverso la poesia, le arti e il ricordo, ma di stimolarlo e coltivarlo fra i nuovi arrivati nella comunità nazionale. È il momento di far giocare allo Stato il gioco surrealista della macchina da cucire e dell´ombrello sul tavolo dell´autopsia? (…)
Perché nascondere ai cittadini il fatto che l´arte cosiddetta «contemporanea», questa immagine di marca inventata di sana pianta dal mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune né con tutto quello che fino ad oggi abbiamo chiamato «arte» né con gli autentici artisti viventi, ma non quotati in questa Borsa? Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet, che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami di cui ci vorrebbero far credere che il loro kitsch, trasportato a Versailles, «dialoghi» con lo sfarzo magnificente di Le Brun, Le Nôtre o Lemoyne? (…)
La chiave del malessere attuale è il conflitto di interessi velato che ha indebolito, se non proprio annullato, la distinzione classica fra Stato e mercato, fra politica e affari, fra servizio pubblico e interessi privati, fra servitori dello Stato e collaboratori di uomini d´affari. Le considerazioni di estetica, di gusto, di arretratezza e di avanguardia sono soltanto cortine di fumo per dissimulare un´offensiva in piena regola del «business dei beni culturali» (copyright di Salvatore Settis) contro quel poco di buon senso che resta nel pubblico francese e quel poco di senso dello Stato che resta nell´amministrazione e nella classe politica francesi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 28.10.10

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“Tagli dei fondi pubblici e vincoli alla spesa. E lo Stato che si defila per lasciare spazio ai mercanti Così in tutta Italia muoiono i musei destinati alle opere contemporanee”, di Conchita Sannino

Un respiro sempre più pesante, che ora minaccia di diventare paralisi. Mentre le forbici di Stato lavorano ai fianchi piccole e grandi istituzioni culturali radicate sul territorio, quello che sembra profilarsi per l´arte contemporanea in Italia non è solo uno tsunami. Ma qualcosa che somiglia al suo più perfido contrappasso: la mancanza di futuro per l´arte in movimento, l´agonia inflitta a un linguaggio in perenne evoluzione, il C´era una volta applicato al racconto futuribile per eccellenza.
Gli ultimi vincoli imposti dal patto di stabilità hanno vibrato il colpo decisivo. Sui musei pubblici d´arte contemporanea – 26 gli italiani più rinomati, con un milione di visitatori in un anno e un trend generalmente in crescita – si è abbattuta la scure dei tagli, dal 30 al 50 per cento, inflitti già a monte agli enti pubblici da cui dipendono, Comuni, Regioni e Province. In più, ecco la norma della finanziaria che da gennaio impone a tutti i centri espositivi di non spendere, per mostre ed eventi culturali, più del 20 per cento di quanto si sia destinato a tali attività nell´anno precedente.
Al museo Mambo di Bologna, di proprietà del Comune, la falce rischia di spezzare molte attività in corso. Lo racconta con tono dolente Gianfranco Maraniello direttore di una realtà che ormai unisce cinque sedi, un dialogo intessuto con le scuole, il territorio perfino con alcuni ospedali. La falce manderà in tilt un pezzo di vita del museo. «Siamo passati da un milione e 200 mila euro di fondi a un budget di 471mila euro. Il paradosso è che pur essendo riusciti a recuperare un milione e 450 mila euro da sponsor e risorse esterne, non riusciamo a spenderli – spiega Maraniello – perché l´ormai nota norma della finanziaria ci impone di non destinare alle mostre e all´offerta culturale più del 20 per cento di ciò che è stato previsto nell´anno precedente. È questa falce indiscriminata che ammazza i musei, e che colpisce persino i processi virtuosi, la capacità di reperire altrove i fondi utili a fare innovazione, a costruire la qualità».
Senza dire che va a farsi benedire la retorica sulla maggiore efficacia del modello misto pubblico-privato. Aggiunge Maraniello: «Sono cresciuto con questa “canzone”, e ora arriva la beffa dell´agonia istituzionale».
È con l´acqua alla gola anche il Madre di Napoli, già simbolo del rinascimento bassoliniano, anche per questo – oltre che per una controversa rendicontazione – oggi in cima al passato da abbattere, o da rigenerare, da parte della nuova giunta regionale di centrodestra. «Abbiamo subìto il taglio totale dei fondi – spiega il suo direttore, Eduardo Cicelyn – Ci hanno sottratto 9 milioni e 400mila euro di finanziamenti europei. E allo stato non sappiamo nulla dei fondi gestionali in arrivo dalla Regione che non ci paga la rendicontazione del 2009 e del 2010. Diciamo che se la crisi riguarda tutti, noi del sud siamo le prime cavie a morire». Il Madre sta pagando a rate un maxidebito di energia elettrica (160mila euro) e attende ancora di saldare i conti del telefono. Una lunga querelle oppone ormai Cicelyn all´assessore Caterina Miraglia, lo scultore Mimmo Paladino ha lasciato un drappo nero su una delle sue opere più famose per protestare contro l´indifferenza in cui va in coma l´arte contemporanea.
Alla battaglia per non morire, partecipa da mesi l´Amaci, l´associazione che riunisce i 26 centri musei di arte contemporanea italiani. La presidente Gabriella Belli non usa toni concilianti. «La ricaduta drammatica di questa erosione di risorse sui musei non riguarda solo la produzione di mostre ed eventi culturali di qualità, ma anche la crescita e il radicamento di una vera e propria economia che aveva costruito rapporti solidi non solo con artisti e designer, ma con artigiani, tecnici, case editrici». Ogni giorni un sos a Milano come a Torino, a Roma come a Bologna. «Si colpisce in questo modo la credibilità di istituzioni che hanno lavorato per anni con musei stranieri e che oggi rischiano di non poter più fare programmazione»
Perché accade ora? Per dirla con l´analisi di un autorevole e ironico esperto, Achille Bonito Oliva, «questo nuovo clima non è dovuto soltanto alla crisi che imperversa in Europa e nel mondo. L´arte contemporanea, in particolare, è un linguaggio che provoca domande e talvolta sgomento. Ed è quanto di più lontano si possa immaginare, culturalmente prima che ideologicamente, dagli obiettivi di formazione di un centrodestra che ha bisogno di promuovere un gusto consolatorio, narcotizzato, soporifero». S´infiamma, Bonito Oliva. «Viviamo in un´epoca di peronismo mediatico, di monopolio dei media – avverte il padre di “Contemporanea” – e figuriamoci se a una tale categoria di conservatori fa comodo avere un luogo dove costruire un gusto collettivo che sia critico, maturo. Ma i musei perché nascono, in fondo? Per essere la palestra in cui viene sollecitato continuamente quel muscolo che rischia l´atrofizzazione: il cervello». E poi, sostiene ancora: «Chi l´ha detto che la crisi sia necessariamente portatrice di morte per l´arte? Guardiamo all´esempio di Roosevelt, il presidente americano che, mentre il Paese era travolto dagli effetti della grande depressione del 1929, investì sull´arte, fece nascere la fotografia documentaristica, e ci ha lasciato la testimonianza di un tempo e di un clima durissimo, grazie a quell´intuizione».
I tagli come bavaglio alle inquietudini, museruola alle domande – non solo pop, non più smaccatamente edoniste e spettacolari, come negli anni Ottanta – che scavano nelle nebbie del reale. E il paradosso, racconta Cristian Valsecchi, segretario generale di Amaci, è che «questi tagli affossano un panorama di produzione culturale proprio quando tutti i trend segnalano una netta crescita di visitatori nei musei pubblici, di interesse per gli eventi dedicati al settore. L´ultima Giornata nazionale dedicata all´arte contemporanea, del 9 ottobre scorso, ha segnato un boom di presenze». Precisa Valsecchi: «Si è passati dai 170 aderenti dell´edizione del 2005, tra gallerie, centri, musei, ai 110 aderenti di qualche giorno fa. Con un coinvolgimento di circa 170mila visitatori in una giornata». Valsecchi ha un´immagine per sintetizzare la situazione italiana. «Se si crede veramente al “giacimento culturale”, il giacimento lo si sfrutta, con gli investimenti. Esattamente come si fa con il petrolio. Nei Paesi in cui non si coltiva l´ipocrisia o la parola insignificante, come in Francia, il Beaubourg riceve risorse per 75 milioni. Che, in fondo, fanno il doppio di quanto ottengano, tutti insieme, i 26 musei pubblici associati in Amaci».
Un mercato consistente, stimato qualche anno fa da un´analisi Nomisma in 400 milioni di euro, anche quello della compravendita di opere d´arte, benché gravato da una normativa fiscale penalizzante. Sempre aziende private e grandi gruppi mostrano attenzione per il contemporaneo. Mentre in Italia continuano a crescere le gallerie dedicate a questo settore: almeno un migliaio, di cui oltre cento sono officine di ricerca.
Sui tagli, fa eccezione l´accoglienza clamorosa e il boom di presenze che continua a collezionare il Maxxi, inaugurato a Roma. Eppure il suo direttore, Anna Mattirolo, non si sottrae all´allarme. «È la cosa più drammatica che possa capitare a un Paese. Non importa che ora i tagli tocchino più l´uno che l´altro. Se il sistema funziona, siamo in piedi culturalmente. Se il sistema va a rotoli, dobbiamo preoccuparci per tempo. E tutti».

La Repubblica 28.10.10