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"La selezione dei peggiori", di Michele Ainis

I concorsi pubblici servono a garantire la scelta dei migliori, diceva Jeremy Bentham. Ma in Italia si sono trasformati in raffinato strumento di selezione dei peggiori. Merito di procedure scritte con la penna d’oca del burocrate, che si curano poco della qualità dei candidati. Un eccesso di legalità formale che maschera l’ingiustizia sostanziale, e alla prova dei fatti incoraggia ogni sorta di combine. Sicché la farsa che si è consumata ieri alla Fiera di Roma non è affatto una notizia: di concorsi truccati ne abbiamo visti tanti. Semmai la notizia è che ormai anche i bari sono diventati un po’ maldestri, approssimativi come il resto del Paese.

Eppure i 3.300 candidati al concorso da notaio si erano sottoposti a una prova di sadismo. Quintali di libri da studiare, corsi di formazione, praticantato. Un concorso che s’affaccia come una meteora sul cielo delle Gazzette ufficiali, una volta ogni due anni se va bene. La tagliola della terza chance, se non la superi sei fuori per sempre. Infine il tarlo che ti rode dentro se non sei figlio di qualcuno, meglio un ministro, ma va bene anche un notaio, tanto il 17,5% dei notai italiani è figlio di notai. Ciò nonostante quei 3.300 candidati alla legalità ci avevano creduto, altrimenti non avrebbero sgobbato molti anni per affrontare le prove concorsuali. C’è allora una scelta che possiamo fare per restituire a questi ragazzi qualche grammo di fiducia, per restituire a noi tutti il comune sentimento del pudore.

Via il concorso, e soprattutto via l’ordine del notariato, il suo Consiglio nazionale, il presidente, giù giù fino agli uscieri. S’apriranno a quel punto troppi studi notarili? Vorrà dire che il mercato funzionerà da ghigliottina, come succede negli Stati uniti. Gli ordini professionali sono un’eredità sempreverde del fascismo, dopo settant’anni potremmo pure darci un taglio. Invece l’anno scorso ci siamo inventati perfino l’albo dei buttafuori, col risultato che abbiamo sotto gli occhi: l’Italia è un Paese senza ordine, ma con troppi ordini.

La Stampa 30.10.10