attualità, politica italiana

"Ora Berlusconi tende la mano all'Udc di Casini", di Ugo Magri

Sarà un caso, oppure è tutto fiuto giornalistico: chi può dirlo? Sta di fatto che proprio ieri Vespa ha anticipato certe pagine del suo prossimo libro-strenna con le dichiarazioni che il Cavaliere gli ha reso dieci giorni fa. E sono tutta una tirata contro l’ipotesi di governo tecnico che Berlusconi sente nell’aria mai come in questo momento, con Fini sul punto di staccargli la spina.
Berlusconi paragona il mondo senza di lui senza di lui a «un rovesciamento della democrazia», e con formula retorica esclude che Napolitano «potrebbe mai consentire un ribaltamento del risultato elettorale», con quanti hanno vinto le elezioni sospinti all’opposizione. E in effetti, tutti gli indizi portano a escludere complotti del Quirinale per far fuori il premier, anzi: il Capo dello Stato pare sia piuttosto freddo con chi immagina maggioranze senza Pdl e Lega. Più che le trame da Prima Repubblica, Berlusconi deve temere il collasso della propria immagine, il ridicolo che la vicenda Ruby gli sta rovesciando addosso, addirittura i contraccolpi sul piano giudiziario della famosa telefonata in Questura. Ieri l’avvocato Ghedini ha messo sottosopra il Palazzo con quel riferimento a «ipotesi di reato» che qualcuno starebbe studiando per dare a Silvio il colpo di grazia. Possiamo immaginare cosa accadrebbe se la pm Ilda Boccassini, per fare un esempio, dovesse inquadrare il premier nel suo mirino. Sarebbe l’equivalente del celebre «avviso di garanzia» che colpì Berlusconi nel lontano ‘94. Né è scongiurato il rischio, per il Cavaliere, che dall’alto del loro magistero i vescovi gli mettano un quattro in condotta, già l’avevano avvertito di non dare scandalo. Perfino un amico fedele anche di nome, come Confalonieri, gliel’ha detto pubblicamente: se lui continuerà ad avvitarsi su se stesso, una crisi verrà vissuta come liberatoria anzitutto dal suo partito. E ci siamo vicini assai…

Pare che Berlusconi stia cercando occasioni per mettere in mostra una gran voglia di «fare». Sui rifiuti della Campania «e non solo», anticipa il portavoce Bonaiuti. Il «passo indietro» chiesto da Fini, inutile dire, non sfiora nemmeno lontanamente il pensiero del premier. Che nei suoi sfoghi domenicali ha confermato quanto di peggio sul presidente della Camera (così perlomeno giurano i suoi interlocutori), incentivando gli attacchi frontali tipo quello portato da Osvaldo Napoli contro Fini («L’imbarazzo? Un sentimento che gli è sconosciuto…»). Nello stesso tempo Silvio raccomanda di non sparare contro Casini in quanto, sostiene, «lui potrebbe darci una mano». E dal momento che l’Udc chiede a gran voce le sue dimissioni, viene da chiedersi se il Cavaliere non abbia perso per caso un po’ di lucidità.

Chi sta addentro alle strategie berlusconiane giura che no, Berlusconi non è affatto impazzito. L’aiuto che si attende dai centristi (in cambio, pare, di qualche patto declinato al futuro) consisterebbe nella garanzia del loro a ipotesi «tecniche», appunto. Perché senza l’apporto di Casini nessun «ribaltone» avrebbe successo e si andrebbe di corsa alle elezioni anticipate. Insomma, pare ci siano contatti con l’Udc (non è ben chiaro a quale livello) con l’obiettivo di dissuadere anzitutto Fini. Della serie: «Caro Gianfranco, se tu domenica davanti al tuo partito premerai il grilletto, sappi che si andrà al voto e tu ti dovrai acconciare al ruolo di numero due del terzo polo».

Mentre Berlusconi coltiva questi disegni, i suoi seguaci molto concretamente ammucchiano sacchi di sabbia nelle trincee della Camera e, soprattutto, di Palazzo Madama. Perché in caso di crisi la partita si deciderà lì, per un pugno di voti. Sotto stretta osservazione 4-5 senatori contattati dal Pd per votare un’eventuale mozione di sfiducia al premier

La Stampa 01.11.10

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“Pdl, il governo e la paralisi. Il coraggio della verità”, di Ernesto Galli della Loggia

Che cos’altro deve succedere perché il Pdl si ricordi di essere, sia pur allo stato fantasmatico, un’entità che dice di essere un «partito»? Che cos’altro deve succedere perché i suoi deputati e senatori si accorgano che continuando così almeno la metà di loro non rivedrà mai più il Parlamento, e può considerare chiusa la propria carriera politica? Eppure, che la situazione della maggioranza sia sull’orlo del collasso è evidente a tutti, così come è altrettanto evidente che di questo passo rischia di subire un danno irreparabile l’immagine stessa del Paese e quel poco o tanto che resta del suo rango internazionale.

Non si tratta dell’avventurosa vita notturna del presidente del Consiglio, della quale egli mostra troppo spesso di sottovalutare i rischi. Fin dall’inizio ci siamo volenterosamente sforzati di dire che in fondo (e sia pure entro certi limiti) tutto questo riguardava la sua vita privata: convinti tra l’altro, come i fatti hanno finora dimostrato, che non sarebbe stato certo agitando tali argomenti che l’opposizione sarebbe mai riuscita ad avere la meglio. Né si tratta della ben nota disinvoltura istituzionale del premier: disinvoltura che spetterà al magistrato appurare se nell’ultima vicenda della ragazza marocchina abbia superato o no il confine della legge. No, non si tratta di tutto questo, o non solo di questo. E neppure tanto della paralisi dell’azione di governo, che pure è un dato reale. Si tratta del fatto che negli ultimi mesi è venuta meno nell’esecutivo qualunque capacità di direzione e di coordinazione, qualunque consapevolezza della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto se non al livello della pura emergenza. Palazzo Chigi ha perduto la pur minima capacità di ascoltare e di rappresentare il Paese. L’Italia è — ed ancor più si sente — una nazione allo sbando. Chi ha la responsabilità di essere stato eletto dal popolo lo capisce? Ha gli occhi per vederlo?

È dunque inconcepibile che in una situazione del genere non si apra nel Pdl una discussione approfondita e senza riguardi per nessuno su quello che sta accadendo. Ripetere, come fanno un po’ tutti i suoi esponenti, che questo sarebbe il momento di «resistere », di «tener duro», di «restare uniti», è un vano esercizio retorico da assedio di Forte Alamo. Nella sostanza è puro nullismo politico. Per giunta all’insegna dell’ipocrisia, dal momento che è noto a tutti come, tra l’altro, proprio i «resistenti» più esagitati siano assai spesso quelli che, nei capannelli e dietro le quinte, vanno poi dicendo le cose peggiori sul conto del presidente del Consiglio, rivelando e stigmatizzando, quasi con sudicio compiacimento, le sue défaillance di ogni genere.

Non è più il tempo dei camerieri zelanti e bugiardi. È giunto il tempo della verità.

Se vuole avere ancora un qualche futuro politico, se non vuole ripetere in un registro grottesco la tragedia del Partito socialista nel 1992-1993, il Pdl deve dimostrare oggi— oggi o mai più — di volere, e di potere — essere un organismo politico reale. Fermandosi a considerare la propria storia e affrontando quei nodi che fin qui non ha mai voluto affrontare. C’è bisogno di ricordarli? Il ruolo, certamente decisivo ma a dir poco ingombrante del suo fondatore e capo, di Berlusconi; il modo di reclutamento e la qualità del suo personale politico, sempre cooptato e quasi sempre improbabile e raccogliticcio, quasi sempre privo di vera esperienza e di legami con l’elettorato (e in più di un caso anche di dubbia o accertata pessima origine); l’assenza patologica al suo interno di discussione e di decisioni collettive; l’ottuso compiacimento plebiscitario, il disprezzo plebeo per la costruzione di qualunque consenso che non sia quello da comizio. E infine il carattere e lo scopo del proprio programma, del proprio ruolo politico generale. Non si può campare in eterno sull’abolizione dell’Ici o sull’opposizione virulenta alla sinistra e alle procure della Repubblica. L’Italia ha bisogno di qualcos’altro. Di molto altro. Per tutto ciò è inevitabile dispiacere al Cavaliere? Certamente. Ma il destino di un’ormai lunga e importante avventura politica oggi si decide su questo e solo su questo: sulla verità e sul coraggio di dirla.

IL Corriere della Sera 01.11.10