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Iran, paura per Sakineh «Tutto deciso, giustiziata oggi», di Rachele Gonnelli

Mercoledì è giorno di forca nel carcere di Tabriz, in Iran. Ed è forte l’allarme per Sakineh, la donna che si trova lì reclusa in attesa di essere giustiziata. L’Europa chiede a Teheran di fermare il boia, commutando la pena.
La corda potrebbe essere appesa oggi per Sakineh Ashtiani. Le voci che in modo tortuoso attraverso le organizzazioni dei fuoriusciti iraniani in Italia, Francia e Germania vengono dal carcere di Tabriz, dove la donna è reclusa, parlano di una sua possibile esecuzione nelle prossime ore. Presto, troppo presto, per attivare tutti i canali della grande mobilitazione che nel luglio scorso aveva consentito che almeno si aprisse un fascicolo per il riesame del suo caso e poi a fine agosto all’annuncio della fine della barbara pratica della lapidazione delle adultere in Iran. Non è bastato a salvarla. Sakineh, inizialmente condannata alla lapidazione per adulterio, ora rischia di essere impiccata per complicità nell’omicidio del marito.
Il presidente dell’associazione di iraniani residenti in Italia Karmi Davood ieri ha dato l’allarme: «Ci sono informazioni fondate che provengono da Tabriz di una accelerazione dell’esecuzione». Le stesse informazioni, non si sa se dalla stessa fonte, sono ribalzate anche dalla Francia, attraverso il sito La Règle du Jeu che fa capo al filosofo Bernard-Henri Lèvy attivista dei diritti umani e molto impegnato nella campagna per la liberazione di Sakineh. Chi ha le prove dell’imminente esecuzione della condanna a morte della donna è Mina Ahadi, portavoce del Comitato contro la Lapidazione con sede in Germania che ha seguito da vicino la vicenda dell’arresto del figlio della donna, Sajjad Ghaderzadeh, insieme al suo avvocato e a due reporte tedeschi che li stavano intervistando. Si tratta di una lettera inviata dall’Alta corte di giustizia di Teheran che darebbe il via libera ai carcerieri della prigione di Tabriz. Mina Ahadi è convinta che queste siano «ore cruciali» per il suo caso. Anche il rilascio del figlio Sajjad e del suo avvocato Houtan Kian sarebbe stato sospeso finchè la donna non sarà giustiziata.
LA CONFESSIONE ESTORTA
Il figlio 22enne di Sakineh si nè battuto come un leone per l’innocenza della madre, parlando con tutti i media occidentali disposti a starlo a sentire. Da quando è in arresto, lo scorso 10 ottobre, si teme sia stato torturato. Ieri sul giornale Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, è apparsa la trascrizione di una confessione di Sajjad nella quale il ragazzo addossa ogni colpa al suo avvocato «interessato solo a ottenere l’asilo all’estero», «in contatto con Mina A., comunista antitedesca, e del suo Comitato gestito da circoli controrivoluzionari di rifugiati». Lui e la sorella sarebbero stati strumentalizzati da Kian come dal legale precedente della madre, Mohammad Mostafavi, ora in Norvegia dove ha seguito il destino di esilio dell’altra portabandiera dei diritti umani in Iran, la Premio Nobel Shrin Ebadi, attaccata anch’essa nell’articolo del giornale governativo.
Mercoledì è giorno di forca a Tabriz. E tutti questi indizi hanno finito per mettere in allarme anche Roma e Bruxelles, anche se a Frattini non risulta niente. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata» ed è tornata a chiedere «all’Iran di fermare l’esecuzione e di commutare la condanna». Una impiccagione non è più «accettabile» di una esecuzione per lapidazione, ha rimarcato, dando seguito alle molte pressioni per un suo immediato intervento per fermare il boia. Anche la diplomazia Usa è in campo. A Parigi, Bruxelles e Roma nella notte sono state riaccese centinaia di candele per Sakineh. Una veglia che si spera non preluda a cose peggiori.

L’Unità 03.11.10

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Lo sdegno di Roxana Saberi «E’ una decisione orribile»
di Viviana Mazza

«Come spesso accade nel sistema giudiziario iraniano, penso che il caso di Sakineh Ashtiani non sia stato né trasparente né equo». Roxana Saberi commentava così ieri sera la notizia, non ancora confermata da Teheran, che Sakineh Ashtiani avrebbe potuto essere impiccata oggi. Sono passati 18 mesi dal rilascio di Saberi da Evin, il carcere di Teheran dove vengono spesso rinchiusi i detenuti politici, e il suo libro «Prigioniera in Iran» è uscito da poco in Italia, edito da Newton Compton. E’ un diario dei 100 giorni di reclusione a Evin della giornalista americana accusata di spionaggio, ed è una riflessione sulla verità, dice al Corriere.
«Ashtiani — ricorda Roxana Saberi — era stata condannata alla lapidazione, ma poi le autorità iraniane hanno annunciato che la sua sentenza era stata sospesa, dopo che governi, associazioni dei diritti umani e personaggi influenti di tutto il mondo hanno definito questa condanna “barbara” e “brutale”, come sicuramente è. Se le ultime notizie sono vere, ora sarà impiccata: una decisione orribile e biasimevole. Nessuna delle due sentenze, di impiccagione o di lapidazione, è accettabile. Oltretutto, sia l’avvocato che il figlio di Ashiani, che hanno lanciato una campagna per il suo rilascio, sono in prigione».
Sono state proprio le storie di donne come Sakineh a portare Saberi a diventare un’attivista dei diritti umani, dopo il suo rilascio dalla prigione di Evin. Di lei scrissero l’anno scorso i giornali di tutto il mondo. L’ex Miss North Dakota con master in giornalismo e doppia cittadinanza, iraniana e americana, arriva nel 2003 a Teheran, affascinata dalla terra natia del padre, sposato con una patologa giapponese e residente negli Usa. Riceve l’accredito stampa, produce servizi per vari media, dalla radio pubblica Npr alla tv conservatrice Nel 2006 le negano un nuovo accredito, ma lei resta in Iran a fare interviste per un libro. Nel gennaio 2009 l’arrestano con l’accusa di spionaggio.
Dopo due giorni a Evin, Saberi ha confessato d’essere una spia. Altri ex detenuti hanno detto d’aver rilasciato false confessioni sotto tortura. Anche Sakineh ha confessato in tv. La sottoposero a pressioni psicologiche, che considera una forma di tortura. La avvertirono che potevano tenerla lì per vent’anni, che rischiava la forca se non «collaborava», minacciarono la sua famiglia e il suo fidanzato, il regista Bahman Ghobadi. E lei si convinse che le conveniva «confessare». Ma anziché liberarla, la sottoposero a nuovi interrogatori, costringendola ad accusare un amico innocente. In carcere invece conobbe altre donne che non s’erano piegate, rifiutando di confessarsi spie: come Silva Harotonian, che lavorava per un programma di scambio Iran-Usa per la salute di donne e bambini, come Mahvash Sabet e Fariba Kalamabadi di fede bahai. «Credevano in qualcosa al di là di se stesse: la fede, gli amici, l’ideologia». Provando vergogna per aver tradito i suoi princìpi, Roxana ritrattò la «confessione». E quando la condannarono a 8 anni per spionaggio, iniziò lo sciopero della fame mentre una campagna mondiale chiedeva il suo rilascio. Le diedero due anni con la condizionale, e la liberarono. La «chiave», dice, è stata la mobilitazione globale (anche se c’è anche chi ipotizza un accordo, visto che furono rilasciati due mesi dopo 5 iraniani presi in Iraq).
Roxana non è più fidanzata con Ghobadi, che dopo i suoi Gatti persiani, sta girando un film nel Kurdistan iracheno. E non fa più la reporter. «Da giornalista pensavo che il mio compito fosse di dare le notizie evitando di schierarmi. Ma dopo aver vissuto in prima persona le violazioni dei diritti umani in Iran, è difficile per me restare imparziale». Silva Harotonian è stata rilasciata dopo una campagna cui ha contribuito anche lei. Le due donne bahai che ha conosciuto sono ancora in carcere. Come lo è Sakineh. «Non posso restare in silenzio». Roxana l’attivista gira per le università parlando dei diritti umani. A volte porta al collo lo stesso velo turchese che nel giorno del rilascio le incorniciava il volto.

Corriere della Sera 03.11.10