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"L'America si chiuderà in se stessa", di Bill Emmott

E così, come previsto, le elezioni di medio termine del Congresso americano hanno portato una sconfitta drammatica per il Partito Democratico in generale e per Barack Obama in particolare, con i repubblicani che prendono il controllo della Camera dei Rappresentanti, riducono la maggioranza democratica in Senato e si aggiudicano un bel po’ di governatori di Stato. Ma cosa è realmente cambiato?

La genialità della Costituzione americana, così come progettata dai Padri Fondatori oltre due secoli fa, assicura che la risposta immediata è: molto poco. La risposta a più lungo termine, tuttavia, potrebbe essere diversa, a seconda di come il presidente Obama reagirà a questa battuta d’arresto.

Ben poco cambierà subito perché l’intero sistema democratico americano è stato progettato per impedire un cambiamento drammatico attraverso l’equilibrio dei poteri tra il Congresso, la Casa Bianca e la magistratura. Se la nuova maggioranza repubblicana alla Camera deciderà di cercare di abolire quella che è vista come la più controversa scelta politica di Obama, la sua riforma sanitaria, Obama potrà semplicemente porre il veto sulla proposta di legge.

Inoltre, per la maggior parte di quest’anno, da quando la riforma sanitaria è stata approvata ed è stato concordato il disegno di legge sulla riforma finanziaria, l’agenda di politica interna della Casa Bianca è stata comunque in una fase di stallo. Non c’era possibilità di ottenere innovazioni legislative di peso attraverso il Congresso. Quindi, di nuovo, poco è cambiato.

Una situazione in cui una parte ha la presidenza e l’altra controlla il Congresso è comunque il normale stato delle cose nella politica degli Stati Uniti. E’ stato così per sei anni del mandato di Ronald Reagan negli Anni 80, per sei anni con Bill Clinton nei 90 e per i quattro anni conclusivi di George W. Bush. Il controllo di un solo partito è l’eccezione, non la regola.

Il presidente Obama dovrà ora trovare un modo per lavorare con il Congresso dominato dai repubblicani, cercando nel contempo di garantire che questi condividano la responsabilità agli occhi del pubblico per qualsiasi difficoltà nel governare e, soprattutto, per la persistente debolezza dell’economia. I repubblicani probabilmente preferiranno il confronto, soprattutto quelli (una minoranza, ma rumorosa) che sono giunti al potere con il sostegno dell’assai conservatore, alcuni direbbero fondamentalista, movimento del Tea Party.

Eppure il tema principale del loro programma congiunto – il deficit di bilancio – lo renderà difficile. La maggior parte delle discussioni verterà sulle spese da tagliare e su dove dovrebbe diminuire la pressione fiscale. L’obiettivo della Casa Bianca, presumibilmente, sarà quello di far apparire i repubblicani contrari all’unica cosa che essi, e il Tea Party, verosimilmente auspicano: un governo più snello e un deficit minore. L’obiettivo sarà farli apparire degli ipocriti.

Ed ecco entrare in gioco la riforma sanitaria. La creazione di una copertura universale per l’assistenza sanitaria è il risultato di cui va maggiormente orgoglioso il presidente Obama, ma anche quello per cui è più impopolare. I repubblicani cercheranno di imputare il disavanzo di bilancio al suo piano sanitario, nella speranza di renderlo uno dei temi principali delle elezioni presidenziali del 2012. Il suo obiettivo, che finora non è riuscito a cogliere, sarà quello di convincere la maggioranza del pubblico americano che il piano sanitario non è solo equo e giusto, ma anche conveniente.

La battaglia per il 2012 è, in effetti, iniziata oggi. Gli aspiranti candidati repubblicani sono occupati a interpretare il significato dei risultati di medio termine per le proprie prospettive. Sarah Palin, eroina del Tea Party e ora celebrità televisiva, starà cercando di decidere per quanto tempo ancora continuare a negare la sua candidatura, per mantenere la sua carriera televisiva, ma anche per continuare a coltivare l’immagine di outsider. Ma anche la battaglia per la conservazione a lungo termine della riforma sanitaria di Obama è iniziata oggi.

Il potere di veto del Presidente assicura la sua sopravvivenza per altri due anni, e passerà indenne attraverso il cambiamento del Congresso. Ma il motivo per cui i risultati di ieri potrebbero avere un impatto maggiore nel lungo periodo, è che probabilmente non sopravviverebbe a una vittoria repubblicana nel 2012. Poi, insieme all’abrogazione del sistema sanitario arriverebbe un programma più ampio per ridurre le dimensioni e i costi del governo federale.

Il presidente Obama ha detto in passato che è meglio essere il presidente di un solo mandato che ha ottenuto grandi cose piuttosto che essere riconfermato e fallire. Ma la verità è che ha bisogno di due mandati per preservare i suoi successi. I suoi consulenti oggi staranno cercando di elaborare per lui una serie di obiettivi e parametri di riferimento per i prossimi 12 mesi, che dovrà raggiungere se vuole essere rieletto.

Uno di questi, come già detto, è cambiare il risultato dei sondaggi sulla riforma sanitaria. Più importante, tuttavia, è un calo della disoccupazione e che un po’ di merito ne vada alla Casa Bianca. L’economia americana attualmente cresce al 2% annuo, un tasso che sarebbe considerato positivo in Europa, ma che è troppo lento per ridurre la disoccupazione negli Stati Uniti, dove la popolazione e la forza lavoro sono entrambe in crescita. Terzo punto all’ordine del giorno una soluzione credibile delle crisi in Afghanistan e in Iraq, in modo da poter dire che l’America è di nuovo sulla strada giusta in politica estera e non manda più i suoi figli e le sue figlie a morire all’estero.

L’ambiente, già grande speranza dell’amministrazione Obama, per il momento può essere dimenticato. Il protezionismo, sempre un grande spauracchio quando la disoccupazione americana è alta, si avvia a diventare un pericolo crescente, in special modo se la Cina rifiuta di rivalutare la sua moneta. Soprattutto, però, da un punto di vista internazionale, l’America tra oggi e il 2012 sarà in una sorta di limbo: preoccupata per le sue lotte interne e profondamente restia a prendere iniziative all’estero, a meno che gli eventi la forzino a farlo.

traduzione di Carla Reschia

La Stampa 04.11.10