attualità, politica italiana

"Gli anni di amore-odio fra il leader e il delfino", di Filippo Ceccarelli

Chissà che idea di qui a vent´anni gli storici, ma anche i curiosi si saranno fatti di questa interminabile partita che tra furori e rappacificazioni, dietrologie addirittura geopolitiche e sgangheratezze da cinepanettone, sembra ieri finalmente avviata alla conclusione definitiva.
Viene in testa un enigmatico, eppure anche emblematico appunto scritto da Fini su un bigliettino lasciato sul banco mesi orsono, dopo un intervento a un convegno: «Fare pace – diceva – e fare finta». Così come torna alla memoria, in questo caso per la sua grossolana linearità, quella specie di ultimatum rivolto da Berlusconi al suo più insidioso nemico: «O pianta la Tulliani e dice sì ai punti del programma, e in tal caso cancelliamo tutto e sparisce Montecarlo, oppure – continuava la “proposta” – non ne esce politicamente vivo».
E se tutto in realtà è sempre inscritto nell´inesauribile immaginario del potere, ecco che a scartabellare negli archivi si trovano notizie e resoconti da cui si capisce che fin dal dicembre del 1994, ai tempi della crisi del primo governo Berlusconi, tra i due le cose potevano evolvere nel modo tempestoso che si è visto ieri. Per cui con beneficio d´inventario si segnala che richiesto di commentare quella sua condizione di futuro “perenne secondo”, l´allora leader di An replicò con un sorrisetto altezzoso che questo problema non se l´era posto «nemmeno a nove anni».
Ebbene, in questa storia la questione anagrafica ha certo un peso assai rilevante. Tutto in effetti spinge a pensare che già allora l´ex “eterno gregario” si fosse fatto i suoi calcoli; ma oggi Berlusconi sa benissimo che Fini lo considera vecchio, anzi “un vecchio”, e questo lo fa impazzire di rabbia. Dal che s´intuisce come tutta la vicenda non solo sia condizionata dalla biologia e dai sentimenti, ma avviene all´apice dei processi di personalizzazione, per cui i due leader si muovono sulla scena secondo i moduli del consumo e dello spettacolo e quindi in una fantasmagoria di chiacchiere, foto, video, mogli, cognati, dossier condominiali, scandali sessuali, vendette tribali e quant´altro graziosamente la regressiva politica di questo tempo sfarzoso e sudicio reca in dote all´emozione pubblica.
Per cui sì, magari a giorni ci sarà la crisi di governo e in ogni caso ha preso il via un inedito passaggio istituzionale. Ma nel frattempo pare irrealistico che gli studiosi del domani possano osservare l´annunciatissima rottura attraverso le categorie non si dice qui delle culture politiche e delle ideologie, ma anche solo delle alleanze, degli schieramenti, degli interessi o degli insediamenti sociali e territoriali. È storia lunga, ormai, ma eminentemente post-politica. Ha detto Berlusconi di Fini, dopo lo scontro dell´aprile scorso in direzione, quella con il dito puntato (e finito in questi giorni sulle t-shirt): «È venuto a fare il Santoro a casa mia». Si badi: casa. È qualcosa di più di una concezione patrimoniale del potere: vuol dire la fine della polis, la città, il ritorno all´oikia, il luogo della famiglia.
Non si approfitterà della situazione per richiamare un regolamento dei conti a destra. Ma lo strappo in realtà equivale a una separazione coniugale. Non stupisce che il Cavaliere abbia detto: «Mi sono tolto un peso, come quando ho divorziato». Ora, anche lì la causa va per le difficili e per le lunghe. Ancora: lui considerava Fini “un figlioccio”. Comunque colpisce il groviglio a sfondo intimistico, ed è proprio ciò che assegna alla vicenda una valenza psicopatologica.
Non c´è dubbio che abbiano giocato elementi per così dire di scontro tradizionale: il legame con la Lega, l´incertezza sulla successione di Berlusconi, la prepotenza dell´operazione predellino, l´ambiguità sotto il cui segno è nato il Pdl. Eppure è difficile togliersi dalla testa che la prima vera e seria faglia del terremoto a venire si sia verificata quando il leader di An ha cominciato a sospettare che il Cavaliere, o il mondo a lui prossimo, inzuppava il biscottino sui suoi fatti personali, per così dire, il divorzio con la prima moglie, la nuova e giovane donna incinta, il video fantastico e terrificante di lei con l´ex Gaucci. E allo stesso modo Berlusconi ha tratto la certezza dell´infedeltà di Fini quando questi non ha mosso un dito per difenderlo sugli impicci delle intercettazioni, di Noemi, delle foto in Sardegna e della D´Addario. Di questo, soprattutto, vive oggi il potere. È consolante pensare che i leader passino il loro tempo attorno ai tavoli sulle riforme istituzionali o si dedichino anima e corpo a quelli che nei talk-show vengono sventolati, ma solo per qualche istante, come: “I Veri Problemi del Paese”. Però bisogna anche dire che prima della famosa direzione, prima che Feltri lo invitasse a «rientrare nei ranghi» e il Cavaliere a «rimettersi in linea» le batterie berlusconiane hanno concentrato il loro fuoco su Fini con argomenti del tutto pre-politici che tiravano in ballo gelosia, invidia, frustrazione, “malinconia aggressiva” per astinenza da sigarette. Prima della casa di Montecarlo, si potrebbe compilare un interessante prontuario di post-accuse a base di gomme da masticare, calzini bucati, nudismo fotografico.
La domanda: come si poteva pensare di poter evitare in questo modo non tanto la rivolta, ma la più semplice dichiarazione di incompatibilità? Dalla cognateide off-shore di Rue Charlotte ai fasti di Ruby, Nadia e bunga bunga il passo era perfino obbligato. Che cosa porterà tutto questo, e da quale altezza si rispecchi nell´Italia di oggi, è al tempo stesso incognito e sotto gli occhi di ognuno. Il futuro del resto si scopre piano piano, il presente invece dura appena un attimo.

La Repubblica 08.11.10

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“Un giorno da leone”, di MICHELE BRAMBILLA
Ieri Fini ha avuto il suo giorno da leone. Non che prima abbia vissuto anni da pecora, ovvio: ma ieri è stato leader vero, amato e acclamato come non mai. Ancor più di quando a Roma il suo Msi diventò il primo partito e sui colli si risentì cantare, dopo quarant’anni, «sole che sorgi libero e giocondo»; e ancor più persino di quel giorno recente in cui osò alzare il dito in faccia a Berlusconi: «Che fai, mi cacci?».

Un’ombra – quella del raccomandato, o quella del numero due, o perfino quella del traditore e opportunista – aveva sempre un po’ sporcato il rapporto tra Fini e il suo popolo. Leader del Fronte della Gioventù, ad esempio, il ventenne Gianfranco lo era diventato non per volontà degli iscritti, ma per imposizione del suo padrino politico Giorgio Almirante. Alle elezioni per il nuovo segretario del Fronte stravinse infatti Marco Tarchi, che portava finalmente libri e pensiero in un mondo di muscoli e teste rasate. Fini arrivò quinto, ma Almirante decise che il capo del Fronte l’avrebbe scelto il segretario del Msi, cioè lui, tra uno dei cinque più votati. I giovani camerati non hanno mai perdonato a Fini quella spintarella: lo chiamavano «dietro gli occhiali niente» e gli preferivano Rauti, che era vecchio ma volava più alto, parlava di Evola, di Brasillach, di Drieu La Rochelle, di Céline.

Proprio Rauti, all’inizio degli Anni Novanta, strappò poi a Fini la segreteria del Msi, che al giovane «raccomandato» era stata lasciata in eredità da Almirante. Fini se la riprese poco dopo. Ma il suo destino pareva quello del liquidatore di un partito destinato all’estinzione. Poi, nel 1993, l’imprevedibile svolta: Fini si candidò sindaco della capitale e sfiorò l’elezione. Ma anche qui un’ombra, quella di Berlusconi, il Cavaliere nero che aveva fatto endorsement («Se fossi cittadino romano voterei per Fini») manifestando una potenza devastante perché con una battuta era riuscito a sdoganare un mondo che da quarant’anni stava chiuso in un ghetto.

Certo: poi Fini è diventato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e tante altre belle cose ancora. Ma sempre sotto l’ombrello di Berlusconi, il vero, indiscusso leader. Di Fini si diceva che parlava bene, anche se non quanto Almirante; e qualcuno ironizzava sul suo look da impiegato di banca o rappresentante. Anche quando ha sciolto il Msi e fondato Alleanza Nazionale, Fini non ha avuto tutto il consenso del suo popolo: in quanti gli hanno dato del rinnegato, dell’apostata.

Ma ieri no. Anche se la grisaglia era sempre quella dell’uomo Facis, Fini ha parlato come un capo forte e coraggioso, e come un capo che non ha nessuno cui rendere conto. E’ vero: il suo è stato, più che un proporre, un opporre, nel senso che è stato soprattutto un parlare «contro» Berlusconi. Ma il leader di Futuro e Libertà – e qui sta forse il dato più significativo di ieri – ha parlato come un uomo di destra, non come un convertito al «politically correct» quale lo dipingono i giornali vicini al Cavaliere. Ha voluto dire che la destra può essere anche qualcosa di altro rispetto a quella incarnata dal berlusconismo e dalla Lega, lanciando così una sfida alla borghesia, soprattutto a quella del Nord. E’ come se avesse detto: vediamo se possiamo dimostrare che non è vero che essere di destra vuol dire soltanto difendere il proprio portafogli dai comunisti, dalle tasse, dagli immigrati. Vediamo se c’è davvero in Italia una borghesia conservatrice e liberale che sa guardare avanti e all’interesse collettivo. Fini ha così restituito a molti dei suoi l’orgoglio di essere di destra. Mirko Tremaglia ha detto dal palco che grazie a Fini è tornato giovane: e la giovinezza di Tremaglia è Salò, non la sinistra.

Può darsi che tra qualche mese della giornata di ieri resterà solo un pallido ricordo. Fini rischia molto, forse tutto. Ma è anche per questo che, fosse anche solo per un giorno, è diventato leader come mai era stato prima.

La Stampa 08.11.10