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"Un new deal per l'ambiente", di Mario Tozzi

Mentre si sta ancora spalando via il fango del Veneto dal settore più produttivo d’Italia, il retaggio monumentale della nostra storia si sbriciola sotto le stesse perturbazioni meteorologiche a Pompei. Ma il problema non è la pioggia, e la soluzione più culturale che tecnologica.

Il fulcro concreto del New Deal lanciato dal presidente Roosevelt appena dopo il crollo in Borsa del 1929, fu, non a caso, la messa in sicurezza di un territorio soggetto a frane e alluvioni, pur non avendo una tradizione di manutenzione idraulica e geologica per via di una storia ancora troppo breve.

Non si puntò tanto sull’industria pesante (non ancora legata alla guerra), né su una ristrutturazione agricola (la rivoluzione dei pesticidi era di là da venire), ma sul risanamento delle criticità ambientali, ovviamente con i metodi noti allora: cemento armato a pioggia, interventi duri di idraulica ingegneristica, canalizzazioni e dighe (ottenendo così anche importanti quote di energia). Che non fossero i metodi giusti lo si è capito solo nel 2005, quando Katrina ha messo in ginocchio New Orleans, comprese le opere dei francesi rimodernate durante il New Deal, ma figlie di un modello che obbediva solo alla religione del calcestruzzo. Comunque il Paese fu messo in sicurezza, almeno fino all’attuale crisi climatica che costringe a rifare i conti. E non c’erano tesori archeologici o artistici da salvaguardare.

Il Veneto sotto un buon metro di fango, tutto il Nord-Est alluvionato, Toscana e Calabria in stato d’emergenza si accoppiano, invece, nell’Italia di oggi, con il crollo di Pompei e con quelli passati delle mura aureliane a Roma o della Torre di Pavia (per non paventare quelli futuri di decine di manufatti antichi che stanno risentendo più dell’incuria che non delle piogge violente di queste stagioni). Ambiente e cultura sono i settori in cui gli investimenti governativi sono venuti clamorosamente meno in questi anni di rigore dei conti economici, dettato da una crisi non meno grave di quella del 1929. Ma alcune scelte sono (state) scellerate. Nel 2011 il bilancio del ministero dell’Ambiente è di 513 milioni di euro contro i 1500 del 2008, anno di insediamento del governo Berlusconi. E scenderà a 498 milioni nel 2013. I denari per la messa in sicurezza del territorio dovrebbero essere qui compresi. Un taglio del 60 per cento (!), mentre per i beni culturali il taglio è del 30 e per l’agricoltura «solo» del 20 per cento.

Non si tratta quindi di tagli equamente ripartiti, ma di una scelta precisa che vede l’ambiente e la sicurezza dei cittadini evidentemente trascurati. Mentre l’Italia vede oltre il 50 per cento del territorio nazionale a rischio idrogeologico, chi ci governa pensa che non ci sia bisogno di intervenire in maniera massiccia, dimenticando che 1 euro in prevenzione ne vale 5 in emergenza, perché poi bisognerà comunque intervenire a disastro avvenuto. Eppure se c’è un Paese al mondo che godrebbe vantaggi immensi di un new deal ambientale, una riconversione (questa volta ecologica) che lo porterebbe anche fuori dall’emergenza economica, oltre a mettere in sicurezza il territorio, quello è proprio l’Italia.

Un presidente Roosevelt nostrano che imponesse questa visione del territorio procurerebbe nuova occupazione e diminuirebbe le vittime da frana e alluvione. Interventi di ingegneria naturalistica consentirebbero una messa in sicurezza flessibile, che protrarrebbe i suoi effetti benefici per anni, senza inutili sclerotizzazioni in cemento armato che si rivelano prima o poi dannose. E si può fare: la Versilia oggi riesce a sopportare piogge pesanti e «bombe d’acqua» senza danni e vittime perché, dopo l’alluvione del 1996, ha risistemato il proprio territorio apuano con interventi accorti e ha delocalizzato parte delle abitazioni. Tra il 2011 e il 2013 alla tutela dell’ambiente in Italia (frane e alluvioni comprese) verranno dedicati 400 milioni di euro, cioè il 3 per cento degli stanziamenti della Finanziaria, mentre, per esempio, a strade e alta velocità (non sempre utilissime) si dedica quasi il 40 per cento (4,9 miliardi di euro). Chi può meravigliarsi che questa sia diventata la penisola delle frane?

La Stampa 08.11.10