cultura

"L´eresia televisiva", di Francesco Merlo

C´è sempre stato qualcosa di antico e misterioso nel mondo di Roberto Saviano, nella soggezione con cui viene ascoltato, nel rituale che ne esalta la grandezza al di sopra delle parti.
Ma di quale materia collettiva è impastata la credibilità di Saviano? Ebbene, forse mai come ieri sera lo scrittore braccato dalla camorra, il giornalista perseguitato dalla politica, aveva misurato la sua attendibilità e la sua potenza. Più di Roberto Benigni, che pure è il fuoriclasse della risata come provocazione, ma che forse è ormai costretto a misurarsi con un Berlusconi che, con le sue minorenni e le sue disperate ossessioni, non fa più ridere. Bene ha dunque fatto Fabio Fazio a ricordare la gonfia retorica che accompagna Saviano, quella che lo vuole eroe e quella che lo vuole furbastro, opportunista…, gli insulti con i quali è irriso e le strabilianti meraviglie che forse ancor più lo danneggiano.
Ebbene, Saviano ha mostrato subito di cosa sono fatti i suoi riti, qual è il cuore del suo segreto. Lo ha detto Benigni: « Saviano è felice perché è generoso ed è umile». Ha infatti usato la televisione contro la televisione, ha tenuto una lezione sulla disinformazione nel tempio della disinformazione, un monologo nel regno del talk show, ha fatto vibrare la sua monocorde voce di solista sulla scena dei cori sgangherati, si è presentato semplice e disadorno sul palco dei belletti e dei lustrini e, in sintonia con un importante e crescente pezzo di Italia, ha finalmente denunciato il giornalismo che ricatta e infama, mette alla gogna, infanga, distrugge e qualche volta uccide.
Saviano conosce benissimo il codice della soperchieria meridionale, il guappo di cartone e il guappo di carta, i dettagli privati che diventano avvertimenti contro i politici, contro i giornalisti, contro i sacerdoti persino. Nessuno in tv aveva mai detto, così compostamente, che in Italia ci sono giornali che, per servire meglio il potere, vivono di veline avvelenate, sempre lesti ad attingere in quella cultura del sospetto, come sussiegosamente la si chiama, che è nel sangue del Paese. Il giornalismo come l´olio di ricino: una dose e il cattolico Boffo diventa omosessuale, un´altra dose al presidente della Camera, e poi Caldoro e Cosentino…. Saviano non ha completato l´ormai lungo elenco, avrebbe potuto parlare di Chiara Moroni, di Menia, di Urso… è un mercato dove non manca nulla.
Infine, mai nessuno aveva così chiaramente mostrato in tv il fango del quale era stato ricoperto Giovanni Falcone, un fango che, attenzione, non veniva dalla destra ma «dalla sinistra che lo massacrò» ha detto Saviano. Lo accusò infatti di essersi venduto, di avere accettato un incarico ministeriale con Martelli. Era una sinistra che non capiva la sua giusta diffidenza verso certi pentiti e non tollerava il suo garantismo… E poi il corvo, le delegittimazioni in tv, gli insulti degli orlandiani. Si può, e anzi si deve discutere quel che Saviano ha rievocato, personalmente non ho condiviso le critiche a Sciascia, ma è stata un memorabile serata sulla «fabbrica del fango», grazie anche alle immagini terribili che avevamo dimenticato e alle quali dobbiamo invece ritornare, perché sono il controcanto dell´impegno inteso come fanatismo e dunque caricatura, parodia, indignazione facile e invettiva. In fondo, se non fossimo in Italia, il monologo di Saviano sarebbe stato solo uno spettacolo di teatro, parole forti per gli amanti della letteratura engagé, roba non adatta alla televisione dove la scrittura è spesso un´intrusa. Ma qui Saviano, con la sua sintassi ispirata, ci ha fornito la prova che l´informanzione in tv è solo un diritto negato.
Ed è stato bello il suo duetto con Niki Vendola sulle cento, mille (seducenti?) parole che nella lingua italiana – specie nel sud – designano l´omosessuale e si sa che quando le parole sono troppe vuol dire che non c´è la cosa, e che dunque quella sessualità cento e mille volte nominata è solo odio, disprezzo, è come un sacco che prende la forma di quel che gli ficchi dentro, e più parole gli ficchi dentro, più il contenuto si oppone al contenente perché alla fine come ha detto Vendola l´omosessualità è solo uno dei tanti modi per cercare di essere felici.
Gran finale con Benigni che quando prendeva in braccio Berlinguer per proteggerlo ne svelava l´estraneità e l´ inadeguatezza ma adesso non sa più come prendere Berlusconi che ormai è oltre la goffaggine e l´ imperizia. Dunque Benigni rischia di prenderlo non in braccio, ma sottobraccio. Non bastano infatti le sonore sculacciate dello ppirito, neppure in rima: «Frattini / Ghedini / Minzolini, Santanché / oh ye».
È stata, è vero, una serata tutta di sinistra, ma a sorpresa è Saviano la sinistra che non ha catechismo e non si riconosce nel solito videocatologo di Fazio, è lui la sinistra dell´azzardo, ed è un grimaldello micidiale contro la sinistra delle incertezze e delle sfarinature, è per Saviano che la tv di sinistra non è diventata il solito video-polpettone che copre più di quanto svela.

La Repubblica 09.11.10

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“Così la tv riscopre il teatro”, di ALESSANDRA COMAZZI

Benigni esausto che canta «E’ tutto mio» è stato un gran pezzo di televisione. E «Vieni via con me» è stato soprattutto teatro in televisione. Quelle tre ore di elenchi, monologhi, canzoni, sembravano ciò che di più antitelevisivo si possa dare, in questi video-tempi veloci e affrettati, fatti di slogan e non di ragionamenti. Il programma di Fabio Fazio ha invece riscoperto il valore della parola. Non a caso, di sfondo, stavano le pietre millenarie di un teatro greco. Con orgoglio intellettuale, il riferimento non detto era al Verbo, «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Orgoglio ma non presunzione, perché la presunzione è fatta di improvvisazione e di superficialità e di scarsa conoscenza dei mezzi propri e altrui. Fazio invece è così: si prepara, e cerca il meglio su piazza, inseguendo il pensiero trasversale. In fondo fu lui a portare Gorbaciov e il Nobel Dulbecco sul palcoscenico di Sanremo. Ebbe un successo ancora ineguagliato, pure quantitativo, e in fondo quel Festival segnò la via.

Canta Daniele Silvestri il fondamentale brano di Gaber «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono», e a poco a poco la parola «italiano» trascolora e diventa «Saviano». Fazio aveva cominciato questo spettacolo che è una citazione di Paolo Conte, con una serie di elenchi alla Hornby, i buoni motivi per costruire una moschea a Torino, i mestieri di una giovane neolaureata. Poi è arrivato Nichi Vendola a dire i modi in cui si può definire l’omosessuale. E Abbado ha elencato i motivi per cui è sbagliato tagliare i fondi alla cultura.

All’Italia e alla mafia era dedicato il monologo di Saviano, lungo una buona mezzora. Mezzora è molto lunga in tv. Lui l’ha saputa gestire con foga oratoria, richiami a Falcone e Borsellino, la lucida indignazione sulla macchina del fango, che ricopre chi si schiera «contro questo governo. Viene attaccata la vita privata, e chi deve scrivere ha paura. Così si attacca la libertà di stampa, di informazione». Luci splendide, primi piani gloriosi. Poi è arrivato Benigni: «Poiché io non prendo il mio cachet, spero che Masi rinunci allo stipendio». Battute battute battute, e una narrazione di una lucida analisi comico politica, culminata nella canzone «E’ tutto mio». Battuta migliore. «Dice Bersani di Berlusconi: bisogna abbatterlo politicamente: la prossima voglia bisogna beccarlo con una minorenne del pd».

La Stampa 09.11.10