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"La rabbia dei veneti", di Ferdinando Camon

Le zone sommerse del Veneto sono tante, nelle province di Padova, Verona e Treviso l’acqua è arrivata a due metri sopra il pavimento di case, fattorie, aziende, fabbriche. Le persone evacuate sono più di tremila, intorno agli allevamenti gli animali morti galleggiano a migliaia: ma è stato così fin da subito, quando i fiumi han rotto gli argini, il giorno di Ognissanti, e allora come mai la nazione lo scopre con enorme ritardo?

Come mai Bertolaso è venuto il 7 novembre, e Berlusconi e Bossi il 9? È questo che offende e fa arrabbiare i veneti. È di questo che s’è lamentato il governatore Luca Zaia. Leggevamo i grandi giornali nazionali e sull’alluvione non trovavamo che qualche brandello di cronaca, sepolto nelle pagine interne. Guardavamo i tg e vedevamo sempre la saga di Sarah e quella di Ruby, e sulla catastrofe che faceva scappare migliaia di famiglie solo qualche cenno disinformato, o un oltraggioso silenzio. Noi ci aspettavamo di finire in prima pagina, o in apertura dei tg. Interessarsi a Ruby vuol dire divertirsi sull’eros dei potenti, e in fondo anche interessarsi a quale corda o cinghia ha strozzato Sarah è un atto di morboso voyeurismo, non venitemi a dire che è una forma di pietà cristiana. E allora la conclusione dei veneti era: noi moriamo, il paese gode. E allora: questo non è il nostro paese. Noi non facciamo parte dell’Italia, e l’Italia non ci sente come una sua parte. Noi veneti e gli altri italiani non abbiamo la stessa patria. La patria degli altri è l’Italia. La nostra patria è il Veneto.

Direte: ma l’Italia in questo momento non ha soldi, di fronte a una catastrofe il suo istinto è ignorarla o minimizzarla, quindi il silenzio dello Stato di fronte alla mega-alluvione del Veneto era una forma di autodifesa. Ma no, non è così. Perché le proteste del Veneto sono state due: la prima, l’Italia non ci vede, le nostre disgrazie non le interessano, noi anneghiamo e lei si volta dall’altra parte; la seconda, adesso che ha ben visto cosa c’è capitato, non vuole aiutarci, il governatore chiede un miliardo e la Protezione civile gli offre 20 milioni. Tra la prima protesta e la seconda è passata una settimana. Nei primi tre-quattro-cinque giorni il governatore Zaia non chiedeva soldi, chiedeva attenzione. E non l’ha avuta: l’ha avuta dopo, quando le proteste delle città son diventate un’altra notizia, che potenziava la notizia dell’alluvione. Il fatto che il Veneto non sia visto dalla capitale dipende da due ragioni, di cui una è colpa della capitale e l’altra è colpa del Veneto.

La prima: la capitale è miope, non vede fino alle Venezie. Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige per Roma sono una giungla inesplorata, piena di bestie feroci. La seconda: le Venezie hanno una miriade di giornali cittadini, ben fatti, dalla diffusione capillare, economicamente solidi, ma parlano alle proprie città, non parlano a Roma. Poco o per niente collegato alla nazione, il Veneto (e tutto il Nord-Est) non sente di farne parte. Si sente fuori. La nazione è un’entità che riscuote le tasse e basta. Una rapinatrice. Poiché una parte delle tasse del Veneto va alle regioni del Sud, il rapporto tra Veneto e Sud è brutto. È peggiore il rapporto con i meridionali che con gli immigrati. Perché gli immigrati non sono una voce delle tasse, sono anzi una voce produttiva. Adesso che il Veneto è in ginocchio, il brutto rapporto col Sud si fa ancora più brutto, in tutt’e due le direzioni: tutti quelli che hanno una carica, piccola o grande, nel Veneto lamentano che Roma guarda sempre al Centro e al Sud, ed è sempre pronta ad aiutarli, e dal Sud arrivano segnali di scherno.

In Facebook è nato un gruppo chiamato «Allaghiamo il Veneto pisciandoci sopra», dove qualcuno, dotato di spirito poetico, ha costruito un messaggio in rima: «Speriamo nell’uragano Katrina – che spazzi via ogni ridente cittadina». Il gruppo è stato subito cancellato. Ma l’odio resta. Una volta era folklore. Venivano i tifosi del Napoli a Verona, e lo stadio li sfotteva: «Benvenuti in Italia». Poi i veronesi scendevano a Napoli, e lo stadio apriva striscioni di un’irrisione colta: «Giulietta è ’na zoccola». Ma si trattava di sport, adesso si tratta di una disgrazia. Se ridi sull’amico ferito che muore, non sei un amico. Se poi quello non muore, con lui hai chiuso.

La Stampa 10.11.10