attualità, politica italiana

"L'incubo della politica in stallo", di Michele Ainis

Proviamo a figurarci un’esperienza surreale, come quelle che talvolta capita d’attraversare in sogno, specie dopo una cattiva digestione. Proviamo a immaginare un mondo immobile: nessun aereo in volo, i treni fermi alle stazioni, un lungo corteo d’autovetture inchiodate sull’asfalto. Proviamo infine a declinare questa stessa condizione nei palazzi del potere. Lì c’è un partito al contempo dentro e fuori la maggioranza di governo: vota regolarmente la fiducia verso l’esecutivo, però non vota i suoi provvedimenti. Sicché zero leggi, zero decisioni, zero riforme economiche e sociali.

A propria volta il premier inarca un sopracciglio, ma tira dritto come se nulla fosse. Allora quel partito ritira i suoi ministri dal governo, con l’intenzione di farlo cascare giù per terra. Invece il premier si rialza, rimpiazza i dimissionari con qualche faccia nuova, inarca il secondo sopracciglio, ma infine resta incollato alla poltrona. L’opposizione avrebbe l’opportunità di tirargli uno sgambetto, presentando una mozione di sfiducia in Parlamento.

Opportunità sulla quale tuttavia esita per mesi, un po’ perché i suoi leader sono altrettanti cacadubbi, un po’ perché temono che alla prova del nove il partito bicefalo si schiererà dall’altra parte. Sotto sotto sperano che li cavi dall’impaccio il capo dello Stato, ma lui è a sua volta ostaggio di questa situazione: mica può dimettere d’autorità il governo, non ha i poteri di Carlo Alberto di Savoia. Nel frattempo il governo c’è ma non si vede, la maggioranza si vede ma non c’è, l’opposizione non c’è e non si vede, e così via per tutti i secoli a venire.

Per tirarci fuori da quest’incubo, proviamo allora a chiamare in soccorso codici e pandette, dovrà pur esserci una regola per gli sregolati. Articolo 94 della Costituzione, primo comma: «Il governo deve avere la fiducia delle Camere». Ma quella ce l’ha, nessuno gliel’ha tolta. Quantomeno in apparenza, poi di fatto il partito bicefalo ha più fiducia in Vanna Marchi. Quarto comma: «Il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni». Giusto, altrimenti il minimo incidente parlamentare scatenerebbe una crisi di governo. Ma se i voti contrari sono tre, com’è successo l’altro ieri? E se ogni giorno si moltiplicano per tre? Nessuna norma detta la risposta. C’è soltanto il secondo comma, che reclama una formale mozione di sfiducia per far chiudere bottega al premier con tutti i suoi ministri.

Succede tuttavia (nella realtà e nell’incubo, ormai non fa troppa differenza) che un soprassalto di coraggio spinga il maggior partito dell’opposizione a raccogliere le firme in calce a un documento di benservito. Finalmente un’occasione di chiarezza? Non è detto. In primo luogo il partito bicefalo potrebbe ripetere la scelta con cui il 3 agosto scorso ha impedito la sfiducia su Caliendo, o con cui il 29 settembre s’è opposto alla sfiducia a Berlusconi. In secondo luogo perché mai dovrebbe marciare a traino? Se avesse già deciso di staccare la spina, la mozione di sfiducia l’avrebbe presentata in prima persona: più redditizio, più altisonante dinanzi agli elettori. In terzo luogo votare la sfiducia senza una soluzione di ricambio comporta il rischio d’anticipare le elezioni anticipate, e magari le truppe non sono ancora pronte. Ma c’è un accordo fra questi carissimi nemici sulla legge elettorale? Se esiste, è il segreto meglio conservato della nostra vita pubblica. Se non esiste, difficilmente il capo dello Stato aprirà ad altri la cassaforte del governo.

Sicché all’orizzonte si profila la perpetuazione dello stallo, un’aria ferma come quella che precede un temporale. Ecco, il temporale. Se i macchinisti che dovrebbero guidare il nostro treno collettivo restano immobili come statue di sale (per dirla in chiaro: se Berlusconi non va a dimettersi con le proprie gambe, se Fli gli rinnova la fiducia contrastandone però l’azione in Parlamento, se l’opposizione non trova l’intesa per giustificare un altro esecutivo), allora meglio un diluvio d’acqua, che tolga via lo sporco e sciolga pure il sale di cui sono fatti lorsignori. Significa che a quel punto Napolitano potrà ben sciogliere le Camere, anche in assenza d’una crisi formale. Dopotutto il suo mestiere – come ha scritto una volta Gaetano Silvestri – è d’operare “ut scandala eveniant”, di tirar fuori la polvere da sotto i tappeti.

La Stampa 11.11.10