attualità, politica italiana

"Le nomine di fine regime", di Massimo Giannini

Ci sono due possibili chiavi di lettura, per decrittare il pacchetto di nomine varato dal Consiglio dei ministri ai vertici di Consob, Antitrust e Authority per l´energia. Può essere un atto di fine regime.
la spartizione finale di un potere al crepuscolo, che un esecutivo al capolinea consuma in un clima da ultimi giorni di Pompei, nel quale il crollo della casa dei gladiatori anticipa simbolicamente l´autodafé della casa del Cavaliere. Oppure può essere un atto di rifondazione dell´establishment: il nuovo inizio di una maggioranza che si credeva ormai in liquidazione, e che invece rilancia la ditta con la protervia e la sicurezza di aver «ricomprato» i numeri giusti al mercatino di Montecitorio, in vista dell´ordalia parlamentare del prossimo 14 dicembre. In tutti e due i casi, le scelte compiute dal governo sono pessime, per non dire indecenti. Nel merito e nel metodo.
C´è prima di tutto una questione di merito. Cominciamo dalla Consob. Era già di per sé uno scandalo che l´organo di vigilanza sulla Borsa e sui mercati finanziari fosse da quasi cinque mesi senza presidente (dopo la scadenza del mandato di Lamberto Cardia a fine giugno) e da nove mesi senza il quarto commissario (dopo le dimissioni di Paolo Di Benedetto a inizio marzo). Ora questa intollerabile «vacatio» viene finalmente colmata. Ma la toppa è quasi peggiore del buco. Il nuovo presidente Giuseppe Vegas, viceministro al dicastero dell´Economia con Tremonti, è persona seria e credibile. Ma ha vasta esperienza di finanza pubblica, e poca dimestichezza di finanza privata. E poi è stato pur sempre senatore di Forza Italia per ben due legislature e mezza, tra il 1996, il 2001 e il 2006. Lo definiscono un «tecnico», in realtà è a tutti gli effetti un «politico». E questa non è una buona cosa, per un´istituzione che dovrebbe esprimere il meglio della tecnocrazia di un Paese.
Il nuovo quarto commissario (che affiancherà Vittorio Conti, Luca Enriques e Michele Pezzinga) è Paolo Troiano. E qui la scelta è ancora peggiore. Consigliere di Stato, Troiano è stato nominato vicesegretario generale della presidenza del Consiglio nel corso della seconda legislatura berlusconiana 2001-2006. Già citato (suo malgrado) nelle intercettazioni telefoniche dell´inchiesta sullo scandalo napoletano e poi romano di Alfredo Romeo, il ras degli appalti, Troiano è salito agli onori delle cronache ai tempi della legge Gasparri sul sistema radio-televisivo, una delle tante «leggi-vergogna» e «ad aziendam», servita a blindare lo strapotere di Mediaset dentro lo schema del falso duopolio televisivo con la Rai. All´epoca, era il 2004, si disse che proprio Troiano fosse uno dei due grand commis che avevano scritto materialmente quella legge, in nome dell´allora ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri e per conto dell´allora premier Silvio Berlusconi.
Veniamo alle nomine nelle altre authority. All´Autorità per l´energia, liquidata la stagione felice di Alessandro Ortis che in questi anni l´ha gestita da solo con grande coraggio e con troppa autonomia, il governo trasferisce Antonio Catricalà, che lascia così l´Antitrust. Al suo posto, al vertice dell´organo di vigilanza sulla concorrenza e sui monopoli, assurge Antonio Pilati, attuale membro «anziano» della stessa Authority. Ma Pilati non è famoso per la tenacia con la quale in questi anni ha «marcato» i grandi trust, a beneficio dei consumatori e a vantaggio del libero mercato. È invece più noto per essere il secondo grand commis ad aver redatto di suo pugno, insieme al già citato Troiano, la Legge Gasparri. Ricapitolando: un politico ex forzista sulla poltrona della Consob, e due «apparatciki» promossi sul campo (alla stessa Consob e all´Antitrust) per meriti acquisiti nel core business del Cavaliere.
C´è poi una questione di metodo. Ancora una volta, dopo mesi di colpevole attesa nel riorganizzare e ridefinire gli organigrammi di istituzioni di garanzia decisive per il buon funzionamento di tutti i mercati, quello che prevale è il «Sistema-Letta». In tutte le grandi democrazie economiche, le autorità amministrative indipendenti sono preziosi custodi dei principi di uguaglianza delle regole e di bilanciamento dei poteri. Chi vi entra, per scelta di governi consapevoli, deve avere rigorosissimi requisiti di autorevolezza, professionalità, indipendenza. In Italia non funziona così. In questi gangli vitali per il controllo delle società quotate in Borsa, dei grandi gruppi industriali e dei colossi dell´elettricità e del gas, la scelta dei nomi viene fatta secondo il collaudato rito lettiano, cattolico, apostolico e romano. Il bacino degli «eletti» è sempre lo stesso: la nomenklatura che orbita intorno alle magistrature pubbliche capitoline (Tar, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, gabinetti ministeriali) sulle quali il sottosegretario di Palazzo Chigi esercita da sempre il suo dominio assoluto e incontrastato. È un sistema chiuso e autoreferenziale, che si riproduce per partenogenesi e che ormai si sposta dall´una all´altra istituzione con un meccanismo di «porte girevoli» (il caso Catricalà insegna). Un sistema che controlla poteri e apparati, e che talvolta purtroppo è anche finito al centro delle inchieste della magistratura, per il modo in cui può pilotare le sentenze e dirottare gli appalti.
Questo metodo è anti-democratico e pre-moderno. Non è degno di un Paese che si immagina ancora come la quinta potenza mondiale dell´Occidente. Un Paese che chiede regole, efficienza, competitività. E che sulle poltrone dei regolatori si ritrova ogni giorno a fare i conti con i cavalli scelti dall´ultimo Caligola di un impero comunque in declino.

La Repubblica 19.11.10