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Motivazioni sentenza: «Dell'Utri mediatore tra mafia e premier», di Claudia Fusani

Il senatore Marcello Dell’Utri è stato «il mediatore» tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Uno «specifico canale di collegamento ma solo fino al 1992» tra il patron di Fininvest e il re del mattone di Milano 2, di Milano 3 e di Brugherio e i capitali e gli affari dei clan di Cosa Nostra che avevano bisogno, ieri come oggi, di trovare canali di investimento al nord. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Palermo presieduta da Claudio Dell’Acqua nelle 641 pagine delle motivazioni della sentenza con cui il 29 giugno scorso il senatore è stato condannato a sette anni in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che i giudici scrivono essere «certamente configurabile».

Dell’Utri, si legge ancora, «ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso». Non solo, l’imputato avrebbe consentito ai boss di «agganciare» per molti anni Berlusconi, «una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico». I sospetti che per quattordici anni hanno accompagnato la parabola politica di Berlusconi allungando dubbi e ombre sui rapporti e sui capitali che ne hanno permesso l’ascesa e hanno ipotecato le cronache giudiziarie e politiche dal 2 gennaio 1996 – giorno in cui fu ufficializzata dalla procura di Palermo l’apertura di un’inchiesta sul creatore di Publitalia prima e Forza Italia poi -, diventano da ieri una verità certificata dai motivi della sentenza d’appello.

Una notizia che ha il potenziale del tritolo in un momento in cui il paese è nei fatti nel pieno di una crisi di governo e Berlusconi in netta difficoltà politica all’interno del partito e con gli alleati. I giudici sembrano essere molto attenti a isolare il ruolo di Dell’Utri rispetto a quello di Berlusconi che sembra quasi costretto a subire quei rapporti ed è descritto come «imprenditore estorto». Dell’Utri, si legge nelle conclusioni della motivazione, «non ha svolto un ruolo di collaborazione con l’imprenditore estorto al fine esclusivo di trovare soluzione ai suoi problemi ma ha invece coscientemente mantenuto negli anni amichevoli rapporti con coloro che erano gli aguzzini politici del suo amico e datore di lavoro».

Dell’Utri infatti ha «consapevolmente sfruttato quell’amicizia e quel rapporto (con Berlusconi, ndr) che gli consentivano di porsi in diretto collegamento con i vertici della potente mafia siciliana». Il Cavaliere assume, a leggere il documento, il ruolo di imprenditore ricattato ma non complice e comunque il tutto «prima che si determinasse (da parte del Cavaliere, ndr) un suo impegno personale in politica». Il mafioso Vittorio Mangano, ad esempio, fu assunto su intervento di Dell’Utri come «stalliere» nella villa di Arcore non certo per accudire i cavalli ma per garantire l’incolumità di Berlusconi e della sua famiglia. Mangano doveva servire ad avvicinare Berlusconi «imprenditore milanese in rapida ascesa economica e destinato a diventare uno dei più importanti esponenti del mondo economico e finanziario del paese» e garantire la sua incolumità «avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni».

Berlusconi, infatti, avrebbe pagato «ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari». Non solo, altre somme sono state pagate negli anni ottanta «per consentire alla Fininvest di trasmettere anche in Sicilia dove aveva acquistato alcune emittenti televisive private». Vari pentiti hanno spiegato in aula di 200 milioni l’anno versati a Totò Riina dal gruppo Fininvest per la salvaguardia delle antenne tv. I giudici hanno creduto al collaboratore Francesco Di Carlo che ha ricostruito il sistema di «relazioni» di Dell’Utri con ambienti di Cosa nostra. Ha un ruolo chiave il racconto della riunione che si è svolta a Milano nel 1975 «negli uffici delle Edilnord di Berlusconi» a cui parteciparono, oltre a Dell’Utri, i boss Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e Stefano Bontade, all’epoca il vertice di Cosa Nostra.

Limitando l’accusa a Dell’Utri fino al 1992 («mancano per il periodo successivo al 1992 prove inequivoche di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale») i giudici non solo sembrano escludere da sospetti di mafiosità la discesa in politica del Cavaliere, ma dimostrano di non credere alla testimonianza del pentito Gaspare Spatuzza, definita «sostanzialmente incosistente e e generica», che invece aveva riferito di specifici rapporti tra Berlusconi e il suo impero e la stagione stragista di Cosa Nostra. «Non sussiste – si legge- alcun concreto elemento comprovante l’esistenza di contatti diretti e indiretti tra Dell’Utri e i fratelli Graviano»

L’Unità 20.11.10