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«La cultura? Appartiene a tutti», intervista ad Ascanio Celestini di Francesca De Sanctis

Parla il regista e attore «La produzione culturale deve essere pubblica, per questo servono i finanziamenti. Solo così sarà davvero libera. La cultura chiude per sciopero. E allora tutti in piazza: registi, attori, ballerini, musicisti… «Manifestare è un atto rituale spiega Ascanio Celestini È chiaro che se il mondo dello spettacolo protesta per un giorno non è come se si fermassero gli operai: loro sì stopperebbero la macchina. Ma è importantissimo che si riapra tutta la questione legata al Fus, alla legge dello spettacolo dal vivo… Per questo bisogna esserci, farsi sentire». Ascanio, qual è il problema più urgente da affrontare?
«Soprattutto con l’ultimo governo anche se in realtà il percorso è molto più lungo la produzione culturale è considerata sempre più superflua. Ma perché fare film, perché fare teatro? È un pregiudizio che in fondo c’è da sempre per chi fa spettacolo. Eppure gli investimenti culturali, in Italia, sarebbero gli unici davvero sensati. Bisogna investire nella cultura, ecco cosa bisogna fare. Mentre una macchina o dei calzini puoi farli fabbricare in Cina o nei paesi poveri, un film o uno spettacolo teatrale non si può fare in Serbia. Da anni in Italia c’è un alto livello della produzione culturale: bisogna solo fare in modo che non crolli».
E ti pare facile visto come vanno le cose in Italia… «Eppure fare cinema converrebbe. Certo per quanto riguarda il teatro la situazione è bloccata da anni: gli Stabili fanno le stagioni solo scambiandosi gli spettacoli tra di loro. I film italiani invece crescono, girano l’Europa. E c’è negli ultimi anni anche una nuova drammaturgia. Quindi questo è il momento giusto per investire. Però non si fa».
Per questo oggi il mondo dello spettacolo è in sciopero: per far arrivare questo messaggio al governo. «Certo che se i nostri ministri continuano a pensare che la cultura senza finanziamenti pubblici è più libera…Ma libera di fare cosa? Senza soldi come si fa? C’è stato un momento, quando all’Eti è arrivato Ninni Cutaia, che davvero pensavo potesse cambiare qualcosa. E invece il governo cosa ha fatto? Ha chiuso l’Eti, così, da un giorno all’altro. In campo cinematografico c’è Filmitalia, per esempio, che fa un ottimo lavoro di promozione dei film italiani e non è neanche un ente pubblico. Allora perché non deve esserci un Ente teatrale italiano che fa un lavoro simile per il teatro e la danza?»
Esiste una via d’uscita?
«Bisogna ricominciare a far funzionare la macchina. Come? Con la promozione e con i finanziamenti. E bisogna aver chiara la differenza tra pubblico e privato. Ci siamo abituati all’idea che l’ente pubblico va avanti grazie ai finanziamenti dei privati, è un po’ tutto mescolato. Però c’è una bella differenza: il privato è lui, il pubblico è tutti noi, per questo servono i finanziamenti. Il teatro, il cinema, la danza, la musica sono di tutti noi: la produzione culturale deve essere pubblica perché così è libera e svincolata dai privati. Si parla tanto dei teatri di cintura: per il Quarticciolo, per Tor Bella Monaco, per Ostia i tre teatri sono dei punti di riferimento. Al governo bisognerebbe dire che non servono 30 teatri di cintura perché chi sta in periferia è deficiente o non può andare in centro, ma perché è importante avere uno spazio pubblico. Dunque perché non partiamo dalle scuole? Alle quattro, quando terminano le lezioni, si potrebbero aprire le porte agli artisti e la sera si va in scena. È un’idea, no?».

L’Unità 22.11.10