economia, lavoro

"Le nuove sfide della democrazia nell´era della crisi economica", di Nadia Urbinati

A giudicare dal suo successo planetario, sembra di poter dire che la democrazia non abbia più nemici. Chi può dirsi oggi anti-democratico? Ma il non aver più rivali credibili esterni non significa che abbia vinto le sfide al suo interno. Una delle condizioni essenziali della cittadinanza democratica è che la società offra soddisfacenti opportunità di formazione e di riuscita e che le carriere siano aperte a tutti senza discriminazione; infine, che ci sia un´ampia classe media, un fattore quest´ultimo essenziale per la stabilità del sistema. I rischi maggiori vengono oggi dalla destabilizzazione di questo equilibrio socio-economico. Rischi classici e che si rinnovano. A scanso di equivoci, la democrazia non è governo degli economicamente eguali, ma governo nel quale le condizioni sociali ed economiche non devono valere a determinare il trattamento da parte della legge e il diritto di contribuire al processo decisionale. La democrazia consiste nell´impedire che le diseguaglianze sociali si traducano in diseguaglianze di potere politico. Il suo è un lavoro di contenimento.
A questo scopo, e proprio perché la libertà economica è fondamentale, le società democratiche moderne si sono preoccupate non solo di creare efficaci istituzioni politiche, ma anche di garantire ai loro cittadini le condizioni affinché ciascuno si formi le capacità per far sì che gli sforzi personali alla realizzazione dei propri progetti di vita non siano inutili. La democrazia non può disinteressarsi dello stato dell´eguaglianza dei suoi cittadini mentre, d´altra parte, non identifica l´eguaglianza con l´egualitarismo. Per questa ragione, le politiche sociali sono l´unico strumento che ha per difendere se stessa dal rischio permanente di erosione dell´eguaglianza.
La crisi economica sta portando alla superficie un fenomeno che è generale e riscontrabile in tutti i paesi: la crescita straordinaria del divario tra ricchi e poveri; più esplicitamente, l´assottigliamento della fascia dei veramente ricchi e quindi della classe media, con il conseguente allargamento della fascia dei meno abbienti e dei poveri. Negli Stati Uniti, per esempio, l´1% degli americani gode del 23.5% della ricchezza. In Italia, stando ai dati Istat, il 13,6% della popolazione si trova in condizioni di «povertà relativa». Queste cifre dovrebbero preoccupare chi ha a cuore lo stato di salute della democrazia.
In un recente volume dal titolo significativo Winner-Take-All-Politics, Jacob S. Hacket e Paul Pierson (un economista di Yale e uno di Princeton) sostengono che i ricchi attuano da anni una politica di conquista del potere. La dimostrazione verrebbe non principalmente dall´attuale crisi economica, ma da una strategia politica che, cominciata nella seconda metà degli anni ´70, ha favorito politiche fiscali che hanno teso a beneficiare i più abbienti. Negli Stati Uniti, a iniziare questa politica è stato il democratico Jimmy Carter, al quale si deve l´avvio della deregulation. La collusione di potere economico e potere politico che si è consolidata a partire da quegli anni, spiegano gli autori del libro, è andava verso una direzione sola, poi suggellata dalla politica fiscale del governo G. W. Bush: la deresponsabilizzazione dei più ricchi nei confronti della società, della quale usano i vantaggi ai quali contribuiscono anche i meno ricchi. La riduzione fiscale a chi guadagnava più di 200.000 dollari l´anno è stata propagandata dal governo Bush con l´argomento che ciò avrebbe incentivato la produzione e indirettamente favorito tutti. Il fatto è che coloro che hanno ottenuto le agevolazioni dallo Stato non hanno investito per creare nuovi posti di lavoro ma hanno creato un vero regime di privilegio (sul The Wall Street Journal si parla senza giri di parole di «plutocrazia»).
La storia americana è esemplare ma non unica. Come gli studiosi che si occupano del consolidamento democratico sanno, le politiche scolastiche sono tra i più importanti indicatori di successo o all´opposto di insuccesso, poiché tra le opportunità l´educazione è quella che più risente dell´influenza delle condizioni economiche e famigliari. La nostra Costituzione aveva previsto questo e si era premunita di neutralizzare questo fattore di diseguaglianza con l´Art. 33 che riconosce la libertà ai privati di istituire scuole ma «senza oneri per lo Stato», ovvero senza togliere risorse alla scuola di tutti. Eppure governi e parlamenti (di entrambe le coalizioni) negli ultimi due decenni hanno trovato il modo di aggirare questa norma e di intaccare uno dei pilastri della cittadinanza democratica.
Come si restringe paurosamente la superficie dei ghiacciai polari, così si restringe la fascia dei cittadini che godono di una sufficiente eguaglianza di opportunità. L´analogia è certamente retorica – benché sia interessante vedere come la qualità della vita ambientale e la qualità delle democrazie marcino nella stessa direzione: in discesa. Nel caso delle democrazie, un´altra analogia, questa volta non retorica, merita di essere considerata: all´aumento della diseguaglianza sociale fa seguito il declino delle opportunità politiche per la grande maggioranza dei cittadini di contare o avere voce. Un indicatore di questa trasformazione oligarchica sta nell´impiego di quantità sempre maggiori di denaro privato sia nelle campagne elettorali sia nella politica ordinaria, sia come sappiamo fin troppo bene nei sistemi di informazione: per persuadere i rappresentanti a favorire o ostacolare proposte legislative, e per controllare l´opinione pubblica in modo tale da riuscire a orientare il comportamento elettorale dei molti verso politiche che favoriscono i pochi.

La Repubblica 22.11.10