attualità, politica italiana

"Europa, cresci in fretta", di Giuliano Amato

C’è qualcosa di profondamente irrazionale e controproducente in ciò che facciamo, o forse più in ciò che non facciamo, per contrastare i fulmini che hanno preso ad abbattersi sui cieli europei. Mi chiedo come ciò sia possibile e che cosa si possa fare per raddrizzare il tiro, prima che sia troppo tardi. Non metto in discussione i congegni finanziari che, sia pure in ritardo, abbiamo messo in piedi per sostenere gli stati che si trovano in situazione di eccezionale difficoltà. Forse per il futuro potremo fare di meglio, forse sarà il caso di far capire per tempo alle banche che, se vale il principio too big to fail, noi lo vorremo applicare in primo luogo ai nostri stati, non ritenendo che debbano essi fallire per evitare che falliscano loro.
Questa volta è andata così e dobbiamo tutti accettare, al punto a cui siamo, il rigore finanziario che la Germania ha giustamente preteso per consentire il sostegno comune agli stati dell’Unione che via via si sono venuti trovando, più o meno colpevolmente, con debiti alti e con bassa credibilità finanziaria.
A rrivo a dire di più. Quando la Germania manifesta fastidio nei confronti degli stati membri economicamente e finanziariamente più deboli di lei, mostrando da un lato i propri risultati sul terreno della produttività del suo lavoro e della forza di penetrazione delle sue esportazioni e dall’altro tutta la riluttanza dei suoi contribuenti a intervenire a sostegno delle finanze altrui, io sono pronto a riconoscere le sue buone ragioni. Perché ne ha di buone ragioni, che sono esattamente simmetriche alle cattive ragioni degli altri: in tema di formazione e conseguente qualità dei lavoratori, di organizzazione del lavoro, di puntualità delle produzioni, di efficienza dei canali distributivi e commerciali. Se i tedeschi ci invitano a essere in tutto questo un po’ più come loro, facciamo bene a non offenderci. Hanno ragione.
È bene dunque imitare la Germania in ciò che la Germania fa meglio di noi. Ma nella situazione in cui attualmente ci troviamo e sulla base dei dati economici e finanziari dai quali parte ciascuno di noi, ci sono paesi ai quali, per uscire dalle difficoltà, non basta imitare la Germania. Una stagione prolungata di rigore finanziario senza politiche che sostengano la crescita può portare infatti quei paesi verso una profonda depressione, che in primo luogo sarebbe ostativa allo stesso ripianamento del debito, poi ridurrebbe in ogni caso la loro vitalità sui mercati e da ultimo potrebbe addirittura portarli al di fuori dell’euro (per difficile che sia uscirne).
Ebbene, se non la prima, di sicuro la seconda vittima di una tale spirale negativa sarebbe la stessa Germania, giacché è proprio la zona euro, compresi i suoi paesi oggi più indebitati, ad assorbire larga parte delle sue esportazioni. E quei paesi lo farebbero molto meno se le loro economie andassero a carte e quarantotto e, ancor meno, se finissero fuori dall’euro tornando a valute svalutate rispetto ad esso e riducendo per conseguenza i margini delle esportazioni tedesche verso di loro.
È qui che trovo irrazionale e controproducente per l’Europa, e per la stessa Germania che l’ha imposta all’Europa, la scelta del rigore non accompagnata da null’altro, quasi che il rigore sia autosufficiente a far uscire tutti dai guai. Com’è possibile che la Germania non veda ciò che è tanto evidente? E come la si può spingere a vederlo e a trarne con gli altri le necessarie conseguenze?
Che i nostri amici tedeschi vedano le cose in modo diverso dagli altri lo spiegano le ragioni stesse del loro successo. Cresciuti dopo la Seconda guerra mondiale al riparo dell’Europa e grazie alla nuova legittimazione che ne avevano ricevuto, avevano accettato il prezzo che ciò comportava, che era quello di pagare il contributo più alto alla vita comune, in ragione della loro dimensione e della forza della loro economia. Col tempo, si sono sempre più convinti del superiore valore delle qualità che li hanno portati a eccellere e sono diventati sempre più insofferenti del loro ruolo di contribuenti maggiori. Di qui il convincimento più diffuso: i soldi che vanno a beneficio di chi ha meno di noi, e ha meno perché è meno virtuoso di noi, sono soldi sprecati.
I governanti tedeschi lo sanno quanto conviene alla Germania che l’eurozona rimanga tutta in piedi, ma la difficoltà che incontrano a far prevalere questa basilare ragione di convenienza la dimostra il fatto che sentono il bisogno di gridarla nei modi più plateali, danneggiando regolarmente l’euro tutte le volte che lo dichiarano a fini interni in pericolo in vita. Chiaramente non sono in grado di uscirne da soli ed è qui che ci volgiamo intorno, guardiamo all’insieme della leadership europea e ci accorgiamo con qualche sgomento che chi, Germania o non Germania, dovrebbe comunque farsi carico dell’interesse europeo è oggi quasi latitante.
La Commissione di Barroso sforna un documento dopo l’altro a mo’ di ufficio studi e mentre siamo in mezzo a un mezzo finimondo chiede commenti entro fine febbraio a una lista di cinquanta proposte per lo sviluppo, molte delle quali mirano a pubblicare libri verdi, rivedere linee guida e incrementare dialoghi e consultazioni. Il Parlamento europeo è a sua volta alle prese con un bilancio comune, sull’impostazione e dimensione del quale sembra prevalere al momento chi punta solo e semplicemente a ridurlo, lasciando a secco le nuove funzioni previste dal Trattato di Lisbona e mettendo a rischio gli stessi fondi di coesione. È inutile rifare per l’ennesima volta la lista delle cose che l’Europa può realizzare per affiancare la crescita al rigore. C’è dentro la liberalizzazione dei servizi che sono oggi la parte più zoppicante della produttività europea (Germania compresa) e ci sono gli investimenti finanziabili con i benedetti eurobond. Ciò che serve è trovare chi tesse intorno a questo un consenso europeo capace d’imporlo con l’assenso, nel suo stesso interesse, della Germania.
Io vedo un solo santo in grado di farlo ed è “San” Van Rompuy, il presidente del Consiglio europeo che già è riuscito a far lavorare i ministri finanziari come sua task force e a farne uscire le proposte approvate dallo stesso Consiglio, tra le quali (ne scrissi due settimane fa) ci sono anche le riforme necessarie a ridurre gli squilibri macroeconomici interni alla zona euro.In altri tempi ci saremmo rivolti al presidente della Commissione. Oggi possiamo solo rivolgere un appello al Parlamento europeo e al presidente del Consiglio europeo, perché non fra un anno ma nel corso delle prossime settimane si mettano in cantiere le azioni che servono. Teniamo conto che non si tratta d’iniezioni di estemporanei energetici, ma di azioni che hanno bisogno di tempo per produrre i loro effetti. È un tempo che è ancora davanti a noi, perché gli stessi effetti ciclici del risanamento sono graduali. Ma davvero non è più molto.

Il Sole 24 Ore 29.11.10