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"La fuga dei talenti che non sognano più di tornare in patria", di Giacomo Galeazzi

Un milione di emigrati dal 2006: per 3 su 4 scelta definitiva
Italia paese di emigranti: cresce il numero degli gli italiani, soprattutto laureati, che nel 2010 vivono e lavorano all’estero (113mila in più rispetto al 2009). Negli ultimi quattro anni un milione di italiani ha lasciato il Paese, documenta il rapporto di Migrantes, la fondazione della Cei che si occupa di politiche migratorie e di cooperazione. Attualmente i connazionali all’estero sono oltre 4 milioni, il 6,7% dei residenti in Italia. L’aumento è di quasi un milione rispetto al 2006: i più vivono in Europa (55,3%) e America (39,3%). Il quinto «Rapporto Italiani nel mondo 2010» fotografa in cinquecento pagine la «grande fuga» dalla madre patria. Attualmente gli iscritti all’anagrafe degli italiani all’estero sono 4.028.370, cioè tanti quanti sono gli immigrati nel nostro Paese. Tra gli italiani residenti all’estero più della metà non è sposato, quasi la metà è costituita da donne, più di un terzo è nato all’estero, mentre 121mila si sono iscritti all’anagrafe dopo aver ottenuto la cittadinanza. I minorenni sono un sesto del totale, superati dagli «over 75» (18,2%). All’estero, oltre agli italiani che hanno la cittadinanza (dunque con passaporto e diritto di voto) sale la stima degli oriundi, cioè dei discendenti degli emigranti. Sono quasi 80 milioni: 25 milioni in Brasile, 20 in Argentina, 18 negli Usa, 17 in Francia, 1,5 in Canada, 1,3 in Uruguay, ottocentomila in Australia, 700mila in Germania, 500mila in Svizzera, 500mila in Perù. Si intensifica anche la mobilità interna all’Italia. «Tra spostamenti interni e verso l’estero, in andata e in rientro, temporanei o di lungo raggio, italiani che vanno o che ritornano, si arriva a quasi 400mila spostamenti totali, uno ogni 150 residenti», attesta Migrantes. Decine di migliaia i cervelli in fuga «irreversibile». Dopo aver completato gli studi in Italia, molti lavorano nei principali atenei del mondo. Il piano governativo per il rientro dei ricercatori negli ultimi nove anni ha conseguito risultati praticamente nulli. Solo uno su quattro degli scienziati con la valigia si dichiara disposto al rimpatrio e sempre più i laureati varcano i confini alla ricerca di occupazione (in alcune aree del Sud si sfiora il 50%). Non esiste un censimento completo dei ricercatori all’estero, ma di essi duemila si sono iscritti alla banca dati «Davinci» e in larga maggioranza si dicono soddisfatti della vita condotta lontano dal Bel Paese, sia dal punto di vista sia sociale sia lavorativo. Dalla graduatoria «Top Italian Scientists» risulta che l’Italia ha i suoi più bravi scienziati all’estero, dove i più hanno realizzato il loro percorso professionale: dei 12 italiani insigniti del premio Nobel in chimica, fisica e medicina, solo Giulio Natta (Nobel nel 1963) condusse le sue ricerche interamente in Italia. Una graduatoria interessante è quella che descrive la classifica degli scienziati italiani attraverso l’indice di Hirsch (h-index) che misura il grado di performance della produttività degli scienziati: da essa risulta che solo 7 scienziati su 10 lavorano ancora in Italia, mentre tra quelli registrati nella parte alta della graduatoria ben i due terzi si trovano all’estero. Complessivamente, l’emigrazione italiana da popolare e sofferta che è stata storicamente è diventata sempre più matura e consapevole: l’indagine condotta quest’anno su cinque Paesi (Canada, Francia, Regno Unito, Romania e Spagna), rivela che gli emigrati «comuni» hanno un’istruzione secondaria medio-alta (67,2%), si sentono per lo più integrati nel paese di accoglienza, dove non hanno problemi di lingua, sono proprietari di casa e si ritengono soddisfatti del la-

voro svolto: non pensano di rientrare in Italia, ma ci tengono a precisare che quanto da loro conquistato è il frutto di anni di sacrificio e di un percorso di vita in cui hanno dovuto affrontare e superare prove dure ma inevitabili. L’emigrazione italiana è stata, in prevalenza, un’epopea popolare, fatta di povera gente e a costo di notevoli sofferenze, ma complessivamente gli italiani sono riusciti a raggiungere un positivo e stabile inserimento sul posto. «In Italia si riscontra uno scarso livello di sensibilità rispetto ai connazionali all’estero», denuncia il direttore generale della fondazione, monsignor Giancarlo Perego. «Questa disaffezione concettuale rischia di farci diventare un Paese dalle radici dimenticate».

La Stampa 03.12.10