economia, lavoro

"2010, l’anno nero del lavoro" di Bianca di Giovanni

È una fotografia che il governo non vuole mostrare, ma che gli italiani hanno stampata nella carne e nel sangue. Le crisi aperte in Italia durante la crisi (attualmente si contano 170 tavoli) coinvolgono 216mila dipendenti. Di questi almeno un quarto (53mila) sono a rischio. Vuol dire che a fine crisi resteranno a casa. Numeri secchi che disegnano un dramma. Ad elaborarli per il Pd sono stati Cesare Damiano e Matteo Colaninno.
Un lavoro a due teste, per analizzare dal punto di vista dei lavoratori (Damiano ha un passato di sindacalista in Cgil, oltre all’eperienza al ministero di Via Veneto) e degli imprenditori (Colaninno ha calcato per un ventennio i corridoi di Confindustria, e oggi è alla Piaggio). I dati sono pesantissimi. Nel 2010 si arriverà a un totale di oltre un miliardo e 200milioni di ore di cassa integrazione, con un aumento del 44% rispetto all’anno scorso.
In particolare sono aumentate più di due volte e mezzo le cig, e di quattro volte le casse in deroga. Per il mondo produttivo, è come se 700mila persone fossero rimaste a casa. Un
Paese «a mezzo servizio». Molte di queste crisi sono rimaste lontane dai riflettori, dimenticate o cancellate dal dibattito pubblico. In quasi tutte, è il caso ad esempio della Cnh di Imola
dove si è fatto lo sciopero della fame, si sono registrate proteste disperate e disperanti. Sui tetti, sotto le tende, sulle gru. Ma la cortina fumogena non si è diradata. L’Italia continua a riflettersi nell’illusione del Belpaese, o nell’odio degli stranieri che al contrario di noi vedono, capiscono e magari anticipano i problemi.

L’Unità 06.12.10

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“Il peggio non è finito. La ripresa è debole e non crea occupazione”, intervista a Cesare Damiano

Questi numeri sono la risposta a chi dice che la crisi è alle spalle ». Cesare Damiano commenta gli ultimi dati sul sistema produttivo confermando un allarme: il peggio non è passato. Il bilancio di quest’anno sarà peggiore del 2009.
Eppure qualche segnale di ripresa
c’è. «Ci sono segnali, ma a macchia di leopardo, con tendenze molto negative nell’auto, nel navalmeccanica, nella siderurgia. Anche se vi fosse la ripresa, sarebbe senza occupazione. I numeri che abbiamo davanti ci dicono che sulle 200mila persone coinvolte negli stati di crisi, 50mila non rientreranno al lavoro. Per loro quando finirà il
“narcotico” della cig, ci sarà il deserto ».
I dati mostrano che il70%dei lavoratori dei servizi in stato di crisi sono a rischio disoccupazione.
«Questo significa che il vecchio
adagio del calo occupazionale nell’industria compensato dall’aumento di posti nei servizi è obsoleto, non funziona più. Proprio nei servizi assistiamo a processi di ristrutturazione rilevanti. Se a questo aggiungiamo il fatto che la pubblica amministrazione viene colpita dalla politica (si pensi a Brunetta che sforna le cifre dei tagli), il quadro diventa drammatico.
A parte i tagli, in Italia ci sono 70mila vincitori di concorso che non entreranno nei posti che si sono guadagnati con lo studio. Anche loro restano a casa».
Quanto pesa la Fiat in tutto questo?
«La Fiat, per quanto meno che in passato, è un incidente rilevante. Si sta parlando di investimenti pari a 20 miliardi: quanto tre finanziarie. Incidente anche sotto il profilo sindacale. Se alla fine il contratto sarà frantumato, la domanda è: quanti la seguiranno. A quel punto saremo arrivati alla giungla. Non è questa la risposta da dare in un momento di crisi. Io penso che si possa innovare, restando all’interno del contratto collettivo nazionale, con un’intesa sull’auto riguardo ai turni, le mense e gli straordinari ». Quella di Marchionne è una mossa politica?
«Fiat pensa che per vincere le sfide
della competizione globale si debba
uscire dal quadro dei diritti. Io dico
che la retribuzione dei lavoratori metalmeccanici deve essere uguale in
qualsiasi stabilimento. Nulla vieta
di inserire nel contratto un’intesa
specifica sull’auto».
Qual ‘è la via d’uscita da questo tunnel?
«Per uscire dalla crisi bisogna cambiare la politica economica. A differenza di altri, il governo italiano non interviene a sostegno di settori fondamentali.
Anch’io dico che bisogna guardare ai saldi di finanza pubblica. Ma i saldi hanno un segno più e uno meno. Basta prendere risorse da
chi ha di più (noi proponiamo un prelievo sulle rendite analogo a quello
europeo), e destinarle a nuovi investimenti.
Invece il governo latita. Anche nel caso Fiat il vero assente è l’esecutivo. Nonostante questi numeri, il governo continua a negare le dimensioni della crisi».

L’Unità 06.12.10

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«Paghiamo l’assenza della politica», intervisti a Matteo COlannino

Onorevole Colaninno vi aspettavate una crisi così forte?
«Sicuramente tutti sono consapevoli del fatto che stiamo vivendo una perdita di peso produttivo, con conseguenze pesanti sulle imprese. Tutto questo senza che sia stata messa in campo una vera politica industriale e di crescita. Sta qui l’anomalia italiana. È vero che i fattori di crisi sono molti, a partire dalla crisi finanziaria a livello globale.
Ma è anche vero che l’Italia è l’unico Paese in cui il governo è assente: non mette in campo strumenti di
contrasto, né misure che aiutino il sistema a riposizionarsi. Al contrario di noi, la Germania è riuscita a raggiungere un livello di crescita mai visto dai tempi della riunificazione. I tedeschi hanno sconfitto la crisi, perché hanno continuato ad investire». Magari gli imprenditori tedeschi sono diversi dai nostri.
«Fin da quando ero in Confindustria avevo evidenziato la necessità degli imprenditori di fare anche autocritica. Sicuramente siamo arrivati tardi di fronte ai profondi cambiamenti che si stavano preparando a livello globale, e oggi paghiamo questa mancanza di tempestività. Ma non basta questo a spiegare il crollo italiano. La verità è che i presupposti del centrodestra sono stati sbagliati. Mentre Prodi aveva compreso che il risanamento doveva essere coniugato con
misure per il rilancio (cito solo il cuneo fiscale e il piano Industria 2015), con il governo Berlusconi è mancatala consapevolezza sulla politica economica. Si è ripetuto il solito ritornello: ci si è fermati al piccolo è bello, lasciando però sole le piccole imprese, seminando l’illusione del protezionismo. Il governo non ha aiutato le imprese a crescere, e oggi quello che era il motore del Paese, il Nord-Est, conta un tasso di fallibilità aumentato del 50%. L’impostazione fondata sull’autocompiacimento
è stata sbagliata». Il Nord-Est ha creduto a questa illusione.
«Molti imprenditori si sono identificati in Berlusconi, vedendolo come uno di loro. C’è da chiedersi se oggi quella delega vale ancora: la fotografia della crisi è stata scattata la settimana scorsa, quando i costruttorisono andati in piazza assieme ai lavoratori. Io c’ero, e ho percepito una nuova consapevolezza anche nelle imprese: il consuntivo politico di Berlusconi è insufficiente.
Anche i ceti produttivi cominciano a comprendere che quel “miracolo” è una bolla di sapone».
Come si esce dalla crisi? «L’impresa italiana deve crescere, deve darsi una struttura organizzativa e finanziaria più solida, deve aggredire nuove posizioni di mercato. Che non vuol dire delocalizzare, ma internazionalizzarsi. Si può restare ancorati all’Italia, e contemporaneamente cercare altre condizioni produttive, non per tagliare i costi, ma per avere nuovi clienti». Un commento sul caso Fiat?
«La vicenda è preoccupante. Ho già detto che Marchionne ha usato anche toni inaccettabili. Ma la vera domanda è: cosa vuol fare l’Italia della sua industria dell’auto. Anche in questo caso, a mancare è stata la politica».

L’Unità 06.12.10