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"Le sentenze alla fine non bastano la «razza predona» non paga mai" di Rinaldo Gianola

Il premio Nobel Stiglitz ha scritto: «L’economia degli anni Novanta è stato un cocktail adulterato: tre quarti di menzogne e un quarto di avidità». Ecco la miscela Parmalat . In parlamento si comprano deputati, Alemanno assume ex camerati e amici. Tanzi condannato non passerà neanche un giorno in carcere. Tutto si tiene in un paese dove la legalità è un optional. Calisto Tanzi non sconterà nemmeno un giorno in carcere, anche se la giustizia lo ha già condannato due volte a Milano a dieci anni e ieri il Tribunale di Parma gli ha inflitto, in primo grado, una pena di diciotto anni. L’ex proprietario e presidente della Parmalat ha superato i settant’anni e anche se i giudici lo hanno ritenuto il responsabile del più grande crac finanziario dello storia della Repubblica Italiana potrà stare tranquillo a casa sua, o al massimo svolgerà qualche servizio sociale come alternativa alla detenzione.
Ma non andrà in galera perchè potrà usufruire della legge voluta da Silvio Berlusconi per evitare il carcere al suo avvocato del cuore, già parlamentare di Forza Italia e ministro della Difesa, Cesare Previti. La sentenza di Parma arriva nello stesso giorno in cui in parlamento è in corso un mercato vergognoso di voti per salvare il governo, mentre Alemanno assume vecchi fascisti
nelle municipalizzate di Roma e tutto pare tenersi in questa Italia malmessa e proterva.
Nessuno può permettersi di invocare la galera per gli altri,ma i due filoni processuali del crac Parmalat, a Milano e a Parma, le prime conclusioni, le condanne, le motivazioni dei giudici in particolare in riferimento al ruolo del sistema bancario e al comportamento delle autorità di controllo e della politica, consentono di affermare che Calisto Tanzi e i suoi manager sono stati fortunati ad essere giudicati in Italia. Fossero stati giudicati in America, com’è accaduto ai vertici della WorldCom, della Enron, al finanziere Bernard Madoff, responsabili di enormi truffe ai danni degli investitori, dei risparmiatori, dei dipendenti e dei clienti, il loro destino sarebbe stato certamente più crudele. Le corti americane hanno emesso condanne complessive per diversi secoli di carcere. I giudici hanno imposto che Tanzi e i suoi ex manager contribuiscano a un risarcimento all’azienda Parmalat e ai sottoscritori di obbligazioni, vittime ignare della truffa. Le migliaia di famiglie che hanno visto svanire i loro risparmi, i lavoratori che avevano investito la loro liquidazione, i pensionati rimasti senza un soldo dopo aver scommesso sulle promesse della vecchia Parmalat riusciranno a portare a casa qualcosa? Ora bisognerà verificare come, dopo le transazioni con le banche, sarà possibile rivalersi su Tanzi, visto che l’ex industriale al processo ha negato di esser in possesso di patrimoni: «Non ho più niente, non esiste alcun tesoretto» ha detto, anche se le indagini non hanno mai chiarito i suoi viaggi in America Latina, prima dell’arresto nel dicembre 2003. Tanzi aveva già negato l’esistenza della sua pinacoteca personale con decine di dipinti, da Kandinskij a De Nittis, che i suoi ospiti vip avevano potuto ammirare per anni.
Ma come se un’amnesia collettiva si fosse abbattuta su Parma e dintorni, nessuno si è più ricordato di quei quadri, di quel patrimonio che il padrone della Parmalat ostentava come segno del potere e della ricchezza. Nella soave ipocrisia della provincia e di questo capitalismo predatore, la città sembra estranea a quel campione dell’impresa che sotto i portici era di casa tra latte, merendine, calcio e Formula Uno. Possibile che nessuno, nemmeno la Gazzetta diParma la Pravda locale degli industriali, ricordi quando Tanzi ospitava politici e finanzieri, li portava in giro con l’aereo privato e pagava le Assise della Confindustria negli stand della Fiera dove i vari D’Amato e Berlusconi si lanciavano contro lo Stato spendaccione e i sindacati invadenti?
Tanzi e il crac sono figli di questo sistema economico, come altri. Tanzi è stato il campione di un capitalismo che ha cavalcato la finanza facile, la compromissione con la politica e la carenza dei controlli. Un fenomeno non solo tricolore. Il premio Nobel Joseph Stiglitz, che non è un pericoloso comunista, ha scritto:
«L’economia degli anni Novanta è stato un cocktail adulterato: tre quarti di menzogne e un quarto di avidità». Tutto in nome del mercato. La politica, le istituzioni, le Autorità di controllo dovrebbero chiedersi se le cose sono cambiate.
Ci possono aiutare le parole di Francesco Greco, procuratore aggiunto a Milano, che in un’intervista ha detto: «I danni e le vittime della criminalità economica e della corruzione sono ingenti se non devastanti: si pensi all’evasione fiscale, al debito pubblico esploso negli anni di Tangentopoli, agli scandali che hanno travolto centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, agli infortuni sul lavoro…Sono danni di cui tutti siamo vittime, che tutti stiamo pagando. Eppure questa percezione manca nell’opinione pubblica. Oggi la prima battaglia culturale è spiegare alla gente quanti e quali danni sta subendo per effetto della criminalità economica».

L’Unita 10.12.10