attualità, politica italiana

"Crisi in nome della gente padrona", di Michele Ainis

I parlamenti sono luoghi in cui si parla, come attesta perfino il nome di quest’antica istituzione. Ma nel fiume di parole che ieri ha inondato gli emicicli di Montecitorio e di palazzo Madama un’espressione si staglia su ogni altra. L’ha pronunziata il presidente del Consiglio, aprendo il suo discorso. Questa: «I liberi parlamenti sono chiamati a rappresentare e interpretare la volontà popolare, non a sostituirla».

Poi ha aggiunto varie altre osservazioni, ha difeso l’operato del governo, ha strizzato l’occhio alle pecorelle smarrite per convincerle a tornare nel suo gregge. Ma infine ha ribadito come un mantra il suo aforisma, suonandolo all’orecchio di quanti nel 2008 vennero eletti nelle liste Pdl: chi vota la sfiducia è un traditore, non tanto verso il premier, quanto verso il popolo sovrano.
Non è la prima volta che Berlusconi sfodera questa convinzione, non sarà neppure l’ultima. D’altronde sono numerosi gli italiani che si riflettono nelle parole del presidente del Consiglio, che giudicherebbero la sua uscita di scena alla stregua d’una congiura di palazzo. Però quelle parole, scandite davanti a un’assemblea parlamentare, negano la stessa legittimità del parlamento a esprimere un voto di fiducia, proprio nell’occasione in cui il governo reclama la fiducia.
Hanno l’effetto di pietrificare la dialettica politica, d’inchiodarla a un responso elettorale scolpito su tavole di bronzo. Trasformano il voto delle Camere in una sfida tra due concezioni della democrazia, della sovranità, della Costituzione. Mutano perciò in radice l’oggetto del contendere, che non è più la chiave di palazzo Chigi, non è nemmeno il giudizio sull’efficacia dell’esecutivo in carica, bensì un giuramento di principio, anzi su un principio contro l’altro. Infine quelle stesse parole giocoforza si proiettano sul dopo, sui futuri scenari della crisi, a loro volta irrigidendoli come un paesaggio cristallizzato dalla lava.

Ma che cos’è, a sua volta, il popolo? Esiste davvero questa figura mitica, capace di parlare con una voce sola? E la sua voce vibra sempre sulla stessa corda, anche tre anni dopo le elezioni? Anche se nel frattempo sono mutate le condizioni politiche, economiche, sociali che avevano determinato il primato d’una coalizione sopra l’altra?
No, il popolo evocato dal presidente Berlusconi finisce per contrapporre due finzioni, lasciando gli spettatori senza un unico copione nel teatro della crisi. E situa inoltre parlamento e popolo su due trincee nemiche, contestando al primo la funzione che Walter Bagehot definiva più essenziale: quella di scegliere i governi.
Eppure nemmeno nei regimi presidenziali, nemmeno nell’America di Obama, il Congresso è a mani nude: ha il potere di rimuovere il presidente eletto direttamente dal corpo elettorale con l’arma dell’impeachment, o altrimenti con la sua semplice minaccia, come sperimentò Nixon nei primi anni 70. E fu proprio quest’arma che nei secoli trascorsi permise al parlamento inglese d’emanciparsi dal sovrano, chiamando i suoi funzionari a rispondere dinanzi alle assemblee legislative, trasformando l’impeachment in voto di fiducia, edificando infine la più antica democrazia di questo mondo.

Comunque si concluda la conta tra i favorevoli e i contrari, è su quest’opposizione fra parlamento e popolo che da domani in poi dovremo misurarci. Il gabinetto Berlusconi potrà cadere oggi, tra un mese, forse tra un anno. Potrà caracollare appoggiandosi su qualche voto ballerino, oppure inciampare su un voto altrettanto ballerino. Ma a questo punto sono le stesse istituzioni che traballano. Se gli italiani devono dividersi fra tifosi del parlamento o del governo, meglio ricominciare daccapo, meglio nuove elezioni. Sperando che sia la volta buona.

Non che il parlamento, in Italia come altrove, sia autorizzato a sovrapporsi al popolo, a cancellarlo via dalla lavagna. Non che gli eletti abbiano il potere di divorziare dai propri elettori. Se questo accade significa che la rappresentanza è diventata un guscio vuoto – una “finzione”, come diceva Kelsen. Significa che il rappresentante non è rappresentativo, che dunque è poco più d’un impostore.

Il Sole 24 Ore 14.12.10