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"Avere vent´anni oggi", di Benedetta Tobagi

Si sentono dire che devono impegnarsi di più. Lo fanno già Che la loro è la “generazione meno”, quella che sta peggio della precedente. Lo sanno già. Come pure sanno che non avranno né opportunità di lavoro né pensione Ecco chi sono da Palermo a Milano, da Genova a Napoli i ragazzi scesi nelle strade per riprendersi il futuro

BENEDETTA TOBAGI
G uardateli bene negli occhi e ascoltateli, per una volta, non attraverso i dati Istat, il rapporto Censis o nell´altrui mediazione letteraria e cinematografica. Qualcuno dirà: non siate romantici, non sono tutti così. Però moltissimi sono proprio come loro, giovani adulti, più che ragazzi, ben diversi dai vecchi “adultescenti”: meritano rispettosa attenzione. Non sono mica i cuccioli del Maggio che lottavano così come si gioca cantati da De André. Luca ha già sperimentato che non può permettersi di dire no al datore di lavoro; i viaggi necessari per completare la formazione sono un sogno proibito nel cassetto, ma gestisce la frustrazione senza gettare la spugna. Oggi, non basta più dir loro: impegnatevi, bisogna sacrificarsi per i propri obiettivi. Lo sanno già. Martina nella «vita frenetica» trova il tempo per mobilitarsi, leggere, discutere: sacrifica piuttosto la vita sociale. Enrico non si è chiuso nelle sue preoccupazioni e ha individuato il primo problema nella totale assenza di solidarietà sociale. Sperimentano le prime emozioni politiche, imparano che se non si sta uniti non se ne esce. Bellissima la definizione post-ideologica di Nicola: fare politica è guardarsi intorno e capire, come premessa all´azione per ridurre il divario tra realtà e sogno.
Cosa succederà all´esaurirsi della carica dei vent´anni, fisiologico «antidoto alla rassegnazione»? Non esiste una fattispecie di reato per imputare chi sta uccidendo lentamente questo patrimonio di energie. Tanti nuovi Luca e Nicola, coi tagli alle borse di studio, domani dovranno indebitarsi o rinunciare a una formazione come si deve, finendo ancora più inermi di fronte al mercato e a una società complessa, quindi difficile da capire. Chi ripete il mantra del merito dovrebbe tenerne conto.
Rispondono implicitamente a chi si limita a constatare che sono la prima generazione dalla Resistenza che starà peggio della precedente. Lo sappiamo già, grazie. Hanno diritto di arrabbiarsi, vedendo che il discorso della classe politica non prosegue con l´analisi della situazione, né propone possibili piani sociali, politici ed economici per affrontare la sfida della nuova “ricostruzione” nella società telematica, postfordista e globalizzata. Il sacrificio, anche quello di controllare una rabbia che monta naturale, andrebbe chiesto in nome di qualcosa.
Gli studi attenti che dagli anni Novanta Sergio Bologna dedica ai problemi del nuovo sistema produttivo e contrattuale, al lavoro autonomo e atipico che coinvolge milioni di soggetti, al ripensamento radicale degli ammortizzatori sociali e della formazione, sono bellamente ignorati dai più. Anche le proposte di Tito Boeri e Pietro Ichino rimangono confinate al dibattito tra addetti ai lavori. Ma questo è l´orizzonte in cui s´innestano anche queste dieci storie: l´esistenza di cittadini e lavoratori di serie B. Una drammatica ingiustizia. La loro voce seria e preoccupata ricorda i messaggi di ricercatori, italiani espatriati, giovani genitori coi figli nelle scuole pubbliche disastrate, raccolti da Repubblica.it nei mesi scorsi. La MayDay parade dei precari da dieci anni prova a rimettere al centro questi temi, ma è regolarmente subissata dal concertone di piazza San Giovanni. Bologna ammoniva di non abusare del termine “generazione”, dato che la disperante assenza di prospettive ne coinvolge più d´una (l´ha ricordato anche Barbara Spinelli da queste pagine), proponendo piuttosto la definizione di “web class”, sottolineava che abbiamo a che fare con una middle-class impoverita, non è proletariato, né “moltitudine”. I vecchi apparati concettuali non bastano e regna ancora la confusione persino sulle parole da usare, una tragica cecità bipartisan.
Adesso le fiammate di piazza hanno ricordato che siamo seduti su una polveriera. La paura è un formidabile strumento di controllo sociale e un pericoloso detonatore di aggressività, ma anche un meccanismo naturale prezioso per innescare una soglia d´attenzione più alta, dare una scossa e stimolare reazioni utili. In questo senso, è salutare cominciare ad aver paura: per i giovani manifestanti, non di loro. E anche con loro: chi pagherà le pensioni e sosterrà i consumi tra vent´anni? Guardiamoli negli occhi e qualcuno abbassi lo sguardo per la vergogna. Siamo tutti coinvolti.

La Repubblica 19.12.10

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«Vogliono inchiodarci alla logica della violenza. Li spiazzeremo ancora», di Toni Jop
Tra gli studenti che preparano le nuove manifestazioni: Non siamo soltano un problema di ordine pubblico. Spiazzeremo ancora, così come abbiamo sempre fatto, loro, Maroni e Alemanno, seguono schemi fissi, il movimento no, garantito ». Francesco, dottorando in Scienze Politiche, promette sorprese per il22 dicembre. La strategia nonè ancora stata messa a punto, le assemblee hanno ruminato riflessioni su quel che è accaduto il 14 dicembre quando le immagini delle auto date alle fiamme e i pestaggi ai danni di alcuni agenti hanno scippato titoli e soggettività a una manifestazione di decine di migliaia di ragazzi che lottavano e lottano perché non passi il ddl Gelmini. Alemanno ieri parlava di zona rossa, Mantovano suggeriva misure restrittive incostituzionali per mettere alla gogna il movimento, la tensione sale, si criminalizza la piazza a pochi giorni di distanza dalla prossima prova di forza per impedire ciò che, secondo i militanti dei collettivi, non verrà impedito, e cioè l’approvazione della distruzione dell’università pubblica da parte di questo governo di destra. Dice Francesca, ventiquattro anni, facoltà di Lettere della Sapienza: «Stanno cercando di trasformare il dissenso in una questione di ordine pubblico, serve per stornare l’attenzione dal loro fallimento politico e sociale». Sì,ma auto e bancomat dati alle fiamme, poliziotti picchiati mentre sono a terra o alla guida di un automezzo cos’hanno a che vedere con i vostri obiettivi politici? «Vede – risponde – quel che è successo il 14 non ce lo aspettavamo, io non me lo aspettavo. Ho provato a spiegarmelo tenendo a mente un contesto atroce: la notizia della fiducia al governo conquistata a quel modo è stata una bomba, la manifestazione in quel momento è cambiata. E guardi che io e tantissimi altri come me di fronte a quella violenza siamo rimasti sbigottiti, ma eravamo noi, era la nostra rabbia. Eppure non ho nulla a che vedere con i pestaggi o con gli incendi. Ho visto persone insospettabili ma che conosco applaudire la camionetta in fiamme. Ma è pratica, la violenza, che non ci appartiene, non è roba nostra, anzi. E non credo che il 22 assisteremo a qualcosa di simile, lo spero con tutto il cuore, chiuderemo gli spazi a pratiche che non condividiamo ». «La violenza del 14? Solo atti marginali – sostiene Alessia 23 anni, dei collettivi di Fisica della Sapienza – frutto di una rabbia troppo a lungo accumulata, ma abbiamo dimostrato di saper stare in piazza in modo pacifico anche se per due anni non siamo stati ascoltati ». Ma non è vero, come si fa a considerare nulla il credito del movimento e il rispetto politico e sociale, e la stessa fatica con cui il governo sta arrivando al voto sul ddl? Merito del movimento, ma non ne tengono conto… «Non voglio dar fuoco e nessun bancomat, se è questo che vi interessa, anche se non mi sento di condannare un abitante di Terzigno se esasperato ha acceso quelle fiamme. Sì, cercheremo di riportare le cose alla dimensione di lotta che ci compete, la nostra». «Bella cultura questo governo – questo è Francesco, il dottorando – inquadra il movimento, la piazza, il dissenso, il conflitto come inquadra uno stadio di calcio. Roma città aperta, non fosse tragico, farebbe ridere». D’accordo, ma il 22 che accadrà, c’è una parte grande ed empatica del Paese angosciata al pensiero che il Movimento cada nella trappola del potere… «Vorrei smentire questa angoscia, torneremo in piazza adottando modalità opportune e intelligenti, non saremo dove ci aspettano, riflettiamo su questa nostra forza collettiva, non si temano escalation, pratichiamo conflittualità, non violenza anche se non ci infossiamo in un dibattito sulla dicotomia tra violenza e non violenza». Chiamala dicotomia: la non violenza è un punto politico forte, anzi è la forza, anche di questo movimento.

L’Unità 19.12.10