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"La partita non è perduta", di Alberto Cisterna*

Risale a poche ore or sono l’arresto di uomini e donne della politica in processione per conquistare i favori di uno dei grandi boss della ’ndrangheta. Tra faccendieri intricati con gli apparati investigativi pronti a fare soffiate, esami universitari messi al baratto con qualche regalia e aspiranti consiglieri regionali sottomessi alla cosca per raccattare voti, in poche settimane l’Italia ha ricevuto un quadro devastante della democrazia in Calabria. E questo è successo a casa Pelle, nel cuore di San Luca, in uno solo dei tanti vasi di Pandora che si potrebbero scoperchiare. Cosa sarà capitato prima delle regionali e di altri appuntamenti elettorali nelle centinaia di abitazioni di boss piccoli e grandi, quanta parte del destino di quella terra sia stato compravenduto, non è facile accertarlo. Vedremo. La Calabria sembra vivere una permanente emergenza criminale che tende ad assumere i ritmi asfissianti di un collasso della convivenza civile.

Alcuni territori, soprattutto quelli delle province di Reggio, di Vibo e di Crotone appaiono ostaggio di un potere mafioso che agisce in modo spregiudicato, assillato da un impulso prevaricatore sulla società e sui suoi apparati. Pelle Giuseppe e quelli come lui, sono onnivori, si cibano di ogni risorsa, di ogni briciolo di opportunità che inciampa nelle loro braccia. È una bulimia mafiosa che non arretra di fronte agli arresti, al carcere duro, alle confische; è un’ambizione che, malgrado i colpi, è tutta protesa a ergersi a centro di ogni discussione, scelta, voto.

Se la Calabria fosse quella che, come nella caverna di Platone, viene proiettata e raccontata dalle microspie del santuario domestico dei Pelle, la partita sarebbe perduta e non ci sarebbe da far altro che dichiarare la sconfitta della Repubblica in quella terra. Eppure in filigrana, smorzata una certa enfasi, le cose appaiono meno disperate. A ben guardare lo spessore di tanti boss e gregari, ma anche dei faccendieri che li blandiscono e, qualche volta, li ingannano con promesse e millanterie, si coglie un fenomeno criminale ancora non esploso in tutta la sua minacciosa capacità.

È una ’ndrangheta, quella di Calabria, ancora ristretta in atteggiamenti, necessità, aspettative quasi arcaiche. Rubacchiare i voti all’università per un pezzo di carta, non vuol certo dire creare quella generazione di colletti bianchi che servirebbe per gestire le grandi ricchezze accumulate. Così come vagheggiare l’elezione con i voti mafiosi di propri parlamentari vuol dire ignorare che il (pessimo) sistema elettorale «per nomina» non lo consente. Eppure è proprio questa miscela pericolosa di sfrenate ambizioni e scarse attitudini, che non siano quelle criminali, a rendere difficile la situazione in Calabria e altrove. Ecco perché questa mafia può essere battuta, con le armi di cui lo Stato già dispone e senza scelte d’eccezione, anche facendo riferimento alle energie che vogliono liberarsi dall’ipoteca ’ndranghetistica.

In Calabria i poteri criminali guardano alla porzione di borghesia corrotta e immaginano di poterla scalzare in un futuro ormai a portata di mano. Hanno percorso molta strada nei decenni alle nostre spalle e non sarà un caso che l’ultimo sindaco arrestato per ’ndrangheta sia della provincia di Pavia o che nel circondario di Sanremo, appena 90.000 abitanti e un nugolo di clan, siano stati consumati 234 attentati incendiari e 491 danneggiamenti in un solo anno. Il Paese appare loro scalabile, la democrazia fragile, le istituzioni rabbiose nella reazione ai delitti eclatanti, ma incapaci di scalzarli per sempre.

Non è facile venirne fuori, ma è possibile. Nel 2010 sono circa un migliaio gli uomini della cosche calabresi finiti in cella e sono stati sequestrati beni per miliardi di euro. È la strada giusta. Per battere i clan occorre adesso por mano al modo in cui la politica seleziona i propri candidati e modificare i sistemi elettorali periferici; individuare le imprese meritevoli; scegliere con attenzione gli uomini delle istituzioni. Cose non molto difficili da fare.

*Magistrato della Direzione nazionale antimafia

La Stampa 23.12.10