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Il welfare che serve all'Italia di Beniamino Lapadula e Riccardo Sanna

E’ necessario riqualificare la spesa pubblica e spostare risorse dalla ricchezza privata alla riduzione del debito. Il welfare italiano è arretrato, mentre il workfare ha un aspetto categorial-corporativo che taglia fuori 4 milioni di precari. Le prospettive del welfare sono condizionate in modo drammatico dalla questione del debito pubblico. Con l’irruzione della crisi questo è un problema non solo italiano, ma di tutti i paesi sviluppati e, in particolare, di quelli europei. Le scelte intraprese dagli Stati dell’Unione europea hanno ridotto temporaneamente l’instabilità finanziaria, ma reso contemporaneamente più incerta la ripresa. Soprattutto visto che l’euroausterity è stata dettata dalla spinta a mantenere i vantaggi competitivi di quelle economie – al primo posto la Germania – trainate dalle esportazioni extra-Ue e con un saldo corrente nella bilancia dei pagamenti positivo a livello nazionale, ma insufficiente a portare il segno più anche al saldo europeo.

Le conseguenze della persistenza degli squilibri globali, della bassa crescita, dell’ulteriore aumento del debito pubblico sull’inevitabile ridimensionamento dello Stato sociale, si sono già fatte sentire in Grecia, in Spagna, ora in Irlanda e in Portogallo, finanche in Francia (con la vicenda delle pensioni), senza peraltro alcun effetto di contenimento sulle rispettive crisi di finanza pubblica. Eppure, persino la big society teorizzata dal primo ministro britannico David Cameron come una “nuova via” si sta rivelando, in questo contesto, per quello che realmente è: una politica di tagli al welfare non molto diversa da quella, a suo tempo, praticata da Margaret Thatcher, la “Lady di ferro” che, a chi l’ammoniva sulle conseguenze che l’ondata mercatistica avrebbe avuto sulla società, rispose con un motto diventato famoso: “La società non esiste”.

Invece, come dice Giorgio Ruffolo (in Lo specchio del diavolo, 2006), la società esiste, è più instabile e terribilmente più diseguale. L’aumento delle disuguaglianze all’origine della crisi richiama la necessità di una nuova politica dei redditi in cui uno dei pilastri dev’essere necessariamente rappresentato dal welfare, nella funzione di sostegno (universale) al reddito e, dunque, all’equità distributiva.

Resta il fatto che l’Italia rispetto a tutte le altre economie industrializzate conta il debito più alto, la spesa in stimoli anti-ciclici più bassa, la flessione più forte del Pil nel biennio 2008-2009, la crescita degli anni pre-crisi più contenuta e la variazione più modesta da qui al 2012 (Economic Outlook dell’Ocse, previsioni del 18 novembre 2010). Di qui il paradosso: se ci fosse già stato un Stato sociale più solido e universale, il sistema-Italia avrebbe ridotto l’impatto della crisi globale; la forte caduta del Pil nella crisi e il debito pubblico ancora elevato consentono sempre meno spazi di manovra per aumentare la spesa di protezione sociale. Anche se resta ancora valida la via di una riforma organica del sistema di spesa sociale.

In ogni caso, l’Italia ha affrontato la crisi con interventi di riduzione più del perimetro pubblico che dello Stato sociale, e per questo apparentemente meno drammatici, anche se i tagli sul sistema pensionistico, sulla sanità e, soprattutto, sul welfare locale si sono fatti sentire, per oltre due anni. La manovra correttiva di luglio del governo, così come la legge di stabilità che ricalca quella impostazione programmatica, non attenua i tagli molto consistenti alla scuola, all’università e alla ricerca, benché questi rappresentino settori strategici per la crescita e lo sviluppo del sistema-paese.

La questione più rilevante, perciò, è che il welfare italiano si presenta a questo appuntamento con la crisi con tutto il suo pesante ritardo storico. La nostra spesa sociale complessiva, pari al 26,7% del Pil risulta poco inferiore alla media europea, che è pari al 26,9%, ma in termini di livello medio pro-capite il dato italiano appare il 17% inferiore a quello europeo. La distribuzione della spesa sociale italiana tra le categorie di protezione sociale rimane sostanzialmente stabile negli anni Duemila, con prevalenza alla voce “prestazioni di vecchiaia”, 51,4% del totale, attribuendo invece alle destinazioni di spesa connesse all’inserimento lavorativo e ad altre tipologie di inclusione sociale il 2,2%.

Il workfare italiano, in particolare, sul versante degli ammortizzatori sociali si presenta ancora con un aspetto categorial-corporativo con gran parte del mondo del lavoro attuale sprovvisto di tutele adeguate. Le stime degli istituti di ricerca più accreditati contano una platea che va dai 3,5 ai 4 milioni di lavoratori precari, in buona parte di nuova generazione, che contano su un compenso medio ampiamente più basso di quello di un lavoratore a tempo pieno e indeterminato, con incertezze nel medio periodo di una continuità di reddito e nel lungo periodo di una pensione.

Si è andati avanti con la cassa integrazione in deroga che copre comunque soltanto i lavoratori standard delle imprese minori e non i milioni di lavoratori a termine e, tanto meno, i lavoratori a progetto e le partite Iva. A essere particolarmente colpiti sono i giovani presenti in larga parte nel mondo del lavoro proprio con queste tipologie di contratti. Non si tratta soltanto di un problema sociale. A venire meno è anche la funzione di “stabilizzazione automatica dell’economia” degli stessi ammortizzatori sociali e, più in generale, del welfare come parametro che agisce senza bisogno di interventi discrezionali, ma con l’importante funzione di attenuare le eccessive oscillazioni del sistema economico, operando in maniera espansiva durante la fase di recessione.

Tutto questo con effetti immediati nel breve periodo. Nel lungo periodo, poi, con la strutturale riduzione della spesa di protezione sociale, di sostegno alle famiglie e con i tagli all’istruzione e alla ricerca verrà meno un’altra funzione decisiva del welfare: quella di ridurre, attraverso la scuola, la più grave delle diseguaglianze, quella derivante dalla nascita e dall’ambiente sociale, che impedisce l’uguaglianza delle opportunità tra cittadini. In questo senso, manca una visione di lungo periodo del problema: alcuni studi della Banca d’Italia indicano che il tasso di rendimento privato dell’istruzione in Italia è superiore a quello ottenibile da investimenti finanziari alternativi (ad esempio in titoli o azioni).

Recenti lavori empirici sugli effetti dell’istruzione per aspetti della vita sociale quali salute, criminalità e scolarizzazione suggeriscono che nel complesso i rendimenti dal punto di vista della collettività sarebbero di entità ancor maggiore. Tutto ciò senza considerare lo stimolo (dal lato della domanda di beni e servizi) agli investimenti, nonché la capacità dell’offerta di lavoro di orientare i settori dove l’economia può svilupparsi per essere più competitiva e assorbire nuovi paradigmi tecnologici, competenze e capacità. Il tema del debito pubblico deve essere affrontato in questa prospettiva.

Non basta dire che l’Italia ha un debito pubblico più sostenibile in quanto il debito delle famiglie è più contenuto e la ricchezza delle stesse più grande degli altri paesi. Occorre, da un lato, che si riqualifichi la spesa pubblica e, dall’altro, che si spostino risorse dalla ricchezza privata verso la riduzione del debito pubblico, soprattutto sapendo che, della grossa massa di ricchezza netta concentrata nelle mani di pochi individui, la componente che ritorna in investimenti fissi (quelli che producono occupazione) è meno del 30% del totale. Se si vuole salvare il welfare, l’introduzione di una significativa imposta patrimoniale non è più rinviabile. Oltre al risanamento del ciclo risparmi-investimenti, necessario per scongiurare il ripetersi della crisi, il gettito di una nuova imposta sui grandi patrimoni, insieme a quello derivante da una vera lotta all’evasione, appare indispensabile per salvare il nostro welfare, modernizzarlo e metterlo al servizio della ripresa della crescita del paese.

da www.rassegna.it