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"La tirannia quotidiana dei lunghi commi", di Mchele Ainis

Le novità del 2011? Sarebbero piaciute a Pascoli, il poeta delle piccole cose. Ma chi non abbia un animo poetico difficilmente potrà entusiasmarsi per questa minutaglia normativa che sta per caderci addosso, senza un progetto organico, senza un respiro. Per carità, è importante introdurre un limite di cilindrata per i neopatentati, o bandire il bisfenolo A dai biberon. È rassicurante l’aumento delle multe, significa che dopotutto il futuro non è che la prosecuzione del passato. È edificante il test d’italiano per gli immigrati, che lo imparino bene almeno loro, noi italiani non sappiamo più parlarlo. Ma se t’aspettavi uno scatto di reni allora no, farai meglio a restartene seduto.
D’altronde anche le innovazioni più salienti sono in realtà mezze innovazioni, promesse normative fin qui senza riscontro. Vale per il federalismo fiscale, dove in assenza dei decreti d’attuazione le pagine bianche prevalgono su quelle appena scritte. Vale per i processi civili, dove la conciliazione obbligatoria può innescare una robusta cura dimagrante per il pachiderma giudiziario, ma può anche risolversi in un quarto grado di giudizio, come se già tre non fossero abbastanza. Vale per l’università, dato che la riforma Gelmini s’affida a un centinaio di regolamenti per andare a regime, e chissà come verranno costruiti, e chissà quante altre norme ci pioveranno sul groppone.

Ecco, le norme. A indicare una terapia normativa per i nostri malanni, invece della siringa dovremmo usare un bel bisturi affilato. Ormai si governa pressoché esclusivamente per decreto, e ogni decreto si gonfia come un ascesso dentale, tanto da ospitare oltre 2 milioni di caratteri, secondo la media del biennio 2008-2010 (erano 1.128.000 nel biennio precedente). Ma la libertà, così come l’efficienza, si guadagna con una norma in meno, non con un comma in più. E le norme da tagliare sono ben più di quelle da iniettare nel corpaccione del nostro ordinamento. Se il ministro per la Semplificazione vi si dedicasse, se in aggiunta mettesse al bando l’ostrogoto che è la lingua ufficiale delle leggi, diventerebbe più semplice anche la nostra esistenza collettiva.Ma c’è un altro dicastero di cui l’Italia ha più che mai bisogno: quello per la Liberazione. Dobbiamo liberarci al più presto dal potere delle lobby, dei mandarini di partito, delle cordate laiche o religiose, di destra o di sinistra, in doppiopetto blu o con indosso una grisaglia da sindacalista. Dobbiamo promuovere il ricambio delle classi dirigenti, facendo spazio a forze fresche, nonché a chiunque abbia idee fresche da mettere in circolazione. Dobbiamo eliminare i troppi conflitti d’interesse che negano l’interesse del Paese. Dobbiamo forgiare un nuovo concetto di cittadinanza, introducendo il controllo degli elettori sugli eletti, dei governati sui governanti. In breve, c’è bisogno di restituire corpo e fiato a tre idee fin qui declamate nei salotti, bestemmiate nella prassi: responsabilità, concorrenza, merito.
Significa che bisogna prendere sul serio la promessa d’eguaglianza tra il genere maschile e femminile iscritta nella Costituzione, e rafforzata con un doppio emendamento agli articoli 51 e 117 approvato all’alba del decennio che sta per tramontare.

Ma le pari opportunità sono rimaste sulla carta, se è vero che le donne viaggiano attorno al 3% fra i primari ospedalieri, fra i rettori, fra i direttori dei giornali. Di più: l’Italia è fanalino di coda anche per la presenza femminile nei settori produttivi, dato che nei Cda delle società quotate in borsa le donne sono il 4% appena, contro una media europea dell’11%. Un rimedio ci sarebbe: la proposta in discussione alla Camera, che colorerebbe di rosa almeno un terzo dei vertici aziendali, sulla scia di quanto ha già stabilito la Norvegia. Una proposta, forse, troppo radicale, perché punisce i disobbedienti anziché premiare gli obbedienti; ma a mali estremi, estremi rimedi.

E a proposito di cure radicali. Nel Paese del familismo amorale, della parentopoli perenne, dell’ascensore sociale sempre fermo al piano, insomma in quest’Italia dove 7 operai su 10 sono figli d’operai, e dove per converso il 40% degli architetti, dei medici, degli avvocati, degli ingegneri e via elencando fa lo stesso mestiere di papà, non resta che un sistema per correggere l’andazzo. Quale? Introdurre una penalità per chi concorra a ottenere la stessa posizione che hanno già raggiunto i genitori. Ma tanto non lo faremo mai, così come non riusciremo a battezzare l’unico antidoto contro i conflitti d’interesse: è vietato posare le proprie auguste chiappe su più di una poltrona. Eppure lo imporrebbe una legge fisica, prima che giuridica.

Rimane il capitolo delle riforme costituzionali, quelle cui maggiormente s’appassionano i politici, salvo non cavare mai un ragno dal buco. E qui in effetti ce n’è per tutti i gusti, dagli interventi sul bicameralismo alla correzione della forma di governo, dall’abolizione delle province alla sforbiciata sul numero dei parlamentari, per concludere con la legge elettorale, che non ha spazio nella Costituzione ma intanto ha prosciugato tutto lo spazio della Costituzione. Tuttavia se c’è un’urgenza, una priorità per ricucire il divorzio che ormai si è consumato fra popolo e palazzo, questa consiste in un’iniezione di democrazia diretta nel corpo sfibrato delle nostre istituzioni. Significa la possibilità di revocare gli eletti immeritevoli, e significa al contempo una cura ricostituente per il referendum. Ma già che ci siamo, potremmo altresì rispolverare una lezione greca, per mettere un freno agli oligarchi a vita, nella società politica non meno che nella società civile. Si legge così: è vietato posare le proprie auguste chiappe più di due volte sulla medesima poltrona.

Il Sole 24 Ore 27.12.10