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"Con la crisi la filantropia (salvo qualche eccezione) va in crisi", di Dario Aquaro

La filantropia non tira più, i grandi donatori si fanno più prudenti, e le associazioni di beneficenza vengono colpite dai tagli decisi dal governo. Il dibattito sul futuro della filantropia si è riacceso nei paesi industrializzati: perché proprio quando la gente deve fronteggiare l’impatto della crisi economica, ecco che i “ricchi” sembrano nascondersi. «Le piccole donazioni sono aumentate esponenzialmente ma i grandi donatori sono piuttosto scomparsi». In Irlanda Fergus Finlay è a capo della Barnardo’s, un’opera di beneficenza per bambini, e negli ultimi due anni ha cercato di soddisfare la crescente domanda di servizi sforbiciando anche i salari del suo staff.

Il problema però rimane: come stimolare la filantropia, renderla più efficace, ridefinire i rispettivi ruoli del pubblico, del privato e del “terzo” settore? «I provvedimenti austeri del governo che ha tagliato 850 milioni di euro dai programmi di tutela sociale si riveleranno disastrosi», spiega Finlay al Financial Times. Come altri leader di associazioni no profit nel mondo, dubita che l’aiuto dei privati possa così compensare i tagli nei sovvenzionamenti pubblici.

Mentre si discute di Big Society (il programma di ridistribuzione del potere dal governo centrale alle entità locali), la beneficenza si riorganizza: in Inghilterra Ian Green, chief executive della cristiana YMCA, prevede un’accelerazione nella fusione tra le sue filiali locali. E ad ottobre a 18 organizzazioni è stato chiesto di restituire 150mila sterline di sussidi già ricevuti. La sfida è dunque trovare fonti di reddito alternative. Uno studio del National Council on Voluntary Organisations e della Charities Aid Foundation ha mostrato questo mese un leggero aumento delle donazioni private nel Regno Unito rispetto all’anno passato. Ma mentre le persone con redditi inferiori stanno donando di più, il contributo dei benestanti – in proporzione al totale della loro ricchezza – si è fatto più scarso.

Stesso copione in altri paesi. Uno studio realizzato ad ottobre negli Stati Uniti dalla Chronicle of Philantrophy ha segnalato un calo dell’11% sulle cifre dell’anno precedente devolute alle 400 maggiori organizzazioni di beneficenza: 69 miliardi di dollari, il livello più basso degli ultimi due decenni. «La filantropia non può colmare il gap lasciato dai tagli del governo», commenta Phil Buchanan, a capo del Center for Effective Philantrophy di Cambridge. Specie se con il protarsi della crisi, molte grandi fondazioni decidono di ritirarsi. Come la One Foundation, della famiglia proprietaria della Ryanair, che ha scelto di chiudere i battenti nel 2013. «Non abbiamo costruito la nostra fondazione per venir poi spazzati via durante la recessione – ammette Deirdre Mortell, chief executive della One – Non era nei nostri piani».
Il problema di come promuovere la filantropia, e come essa debba organizzarsi, è tutto aperto. E per fortuna non tutti i donatori sono intimoriti dagli effetti della crisi. Come dimostra il progetto “Giving Pledge” disegnato da due degli uomini più ricchi d’America, Bill Gates e Warren Buffet: convincere i loro colleghi multimiliardari a donare metà dei loro patrimoni per attività benefiche. Giving Pledge, letteralmente la “promessa di donare”. Il terzo settore si augura che non rimanga solo una promessa.

Il Sole 24 Ore 30.12.10