attualità, lavoro

Fiat, "Investimenti preziosi, ma strappi sulle regole", di Paola Bragantini, Gianfranco Morgando e Stefano Fassina,

Documento congiunto di: Stefano Fassina, Responsabile economia e lavoro PD, Gianfranco Morgando, Segretario PD Piemonte, Paola Bragantini, Segretaria PD Torino
“L’accordo su Mirafiori come l’accordo su Pomigliano vanno valutati su due piani distinti, sebbene connessi: la riorganizzazione delle condizioni del lavoro; le regole della rappresentanza, della democrazia e della partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle sorti dell’impresa. Sul primo piano, la ridefinizione, impegnativa ed intensa, avviene a fronte di una prospettiva di sviluppo e di occupazione. Sul piano delle regole della rappresentanza e della democrazia si compiono strappi ingiustificabili, mentre non si fa alcun passo avanti per la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, anzi il ritorno alle Rappresentanze Sindacali Aziendali è un chiaro passo indietro”. E’ quanto si legge in un documento congiunto redatto al termine della riunione delle segreterie del Pd piemontese e del Pd torinese con il responsabile dell’Economia e del Lavoro della segreteria nazionale del Pd, riunione convocata per esaminare insieme la questione Fiat. Il testo è firmato da Stefano Fassina, Gianfranco Morgando e Paola Bragantini, rispettivamente membro della segreteria nazionale e segretari del Pd regionale e del Pd provinciale. Il testo ha per titolo: Fiat: lavoro, rappresentanza e partecipazione democratica dei lavoratori e delle lavoratrici. “Fabbrica Italia” – vi si legge – prospetta importanti potenzialità di lavoro, reddito, qualità sociale per i territori direttamente interessati e per il nostro paese. Gli investimenti previsti, ancora in larga misura indefiniti ed incerti (dei 20 miliardi previsti, soltanto 1,3 miliardi sono stati effettivamente “pianificati”), sono preziosi, irrinunciabili, a Torino come a Pomigliano, tanto più in una fase di prospettive anemiche di crescita e di occupazione. Oltre alle migliaia di lavoratori e lavoratrici delle aziende Fiat, coinvolgono filiere di centinaia di imprese e decine di migliaia di lavoratori dell’indotto. Gli accordi sottoscritti per Pomigliano e Mirafiori consentono l’avvio di rilevanti investimenti. L’accordo su Mirafiori come l’accordo su Pomigliano vanno valutati su due piani distinti, sebbene connessi: la riorganizzazione delle condizioni del lavoro; le regole della rappresentanza, della democrazia e della partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle sorti dell’impresa. Sul primo piano, la ridefinizione, impegnativa ed intensa, avviene a fronte di una prospettiva di sviluppo e di occupazione. Sul piano delle regole della rappresentanza e della democrazia si compiono strappi ingiustificabili, mentre non si fa alcun passo avanti per la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, anzi il ritorno alle Rappresentanze Sindacali Aziendali è un chiaro passo indietro. Oggi, in Italia, le regole della rappresentanza e della democrazia nei luoghi di lavoro del settore privato sono carenti e non assicurano, in particolare un contesto di divergenti posizioni tra i sindacati, sufficienti garanzie per la piena attuazione delle scelte, anche in presenza di condivisione dalla maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici interessate. L’esigibilità, ossia il pieno rispetto, degli accordi sottoscritti è condizione fondamentale per realizzare gli investimenti di Fiat come di ogni altra impresa. Il problema dell’innovazione delle relazioni industriali è, da tempo, un problema reale, generale, sia per le imprese italiane sia per l’attrazione di investimenti dall’estero. Per risolvere il problema della piena esigibilità, le soluzioni individuate negli accordi sottoscritti per gli stabilimenti di Pomigliano e di Torino-Mirafiori sono sbagliate. Non sono accettabili illusorie scorciatoie – quali la fuoriuscita dal sistema confederale di rappresentanza – volte a negare diritti di rappresentanza ai sindacati che, attraverso il voto e gli iscritti, nelle forme autonomamente decise dagli accordi interconfederali, rappresentano lavoratori. Un’opzione, peraltro, con scarso consenso del mondo imprenditoriale. L’esigibilità degli accordi a tutti i livelli va garantita nella salvaguardia dei diritti di tutti i lavoratori e lavoratrici alla rappresentanza sindacale. È possibile raggiungere tale inscindibile doppio obiettivo mediante un’intesa interconfederale sulla rappresentanza e la democrazia sindacale per definire le condizioni di validazione dei contratti e degli accordi. L’intesa tra le parti sociali dovrebbe poi essere oggetto di una legislazione di sostegno. Il punto di riferimento è l’intesa di CGIL, CISL, UIL del maggio 2008. Si tratta di un’importante acquisizione unitaria da aggiornare, senza alterarne equilibrio di fondo, in modo da chiarire il perimetro dei diritti indisponibili esclusi dalla contrattazione e coniugare la primaria responsabilità contrattuale dell’organizzazione sindacale all’intervento, più esplicito e definito, dei lavoratori in tutte le fasi del processo negoziale, fino alla validazione finale sugli accordi, anche attraverso il ricorso al referendum vincolante per tutti. L’intesa interconfederale dovrebbe includere una parte aggiuntiva volta a definire forme di partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici al capitale e agli utili dell’impresa, come anche alle sue scelte strategiche, attraverso lo sviluppo dei diritti di informazione e di consultazione e, in prospettiva, con la presenza nella “governance” dell’impresa in linea con le migliori esperienze europee, secondo l’ispirazione dell’articolo 46 della nostra Costituzione. In tale contesto, la risposta alle caratteristiche produttive e all’organizzazione del lavoro dell’industria automobilistica, come per altri ambiti segnati da forti specificità, può essere trovata in una normativa ad hoc nel contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici (come è per la siderurgia). Si dovrebbe poi al più presto arrivare ad una significativa riduzione del numero dei contratti nazionali e alla loro trasformazione in ampi contratti-quadro per grandi settori produttivi all’interno dei quali le specificità organizzative di ogni realtà produttiva potrebbero trovare risposta in più robusti contratti aziendali o in contratti di comparto. La cultura sindacale e datoriale largamente prevalente in Italia, come dimostrato dalle recenti posizioni espresse dai vertici di tutte le forze economiche sociali, consente di arrivare in tempi rapidi a soluzioni condivise, fondate sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. L’innovazione delle regole della rappresentanza e della democrazia nei luoghi di lavoro lungo le linee indicate e l’articolazione del contratto nazionale metalmeccanico per il comparto auto aprono le porte al rientro delle newco FIAT nel quadro interconfederale e nel perimetro del contratto collettivo nazionale di lavoro. È un percorso utile alla qualità dell’ordine economico e sociale dell’Italia. È, al contempo, un requisito di efficienza, in quanto una stagione di conflittualità e la concorrenza al ribasso, inevitabile senza la tenuta delle regole interconfederali e del contratto nazionale, sono alla lunga perdenti per tutti. Il conflitto sorto intorno alle vicende di “Fabbrica Italia” si sarebbe potuto ridimensionare in presenza di un governo impegnato a sostenere, come avviene negli USA, in Francia, in Germania, i profondi processi di ristrutturazione del settore automotive attraverso la politica industriale ed una visione strategica all’altezza del potenziale manifatturiero dell’Italia. Invece, il Governo Berlusconi ha rimosso i programmi di politica industriale avviati dal Governo Prodi e si è dedicato ad alimentare la divisione tra le forze economiche e sociali. Da ultimo, si è irresponsabilmente sottratto al compito politico di favorire l’innovazione delle regole della rappresentanza, della democrazia nei luoghi di lavoro e della partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. Il Partito Democratico continua a portare avanti l’iniziativa politica nei territori e in Parlamento per costruire le condizioni di convergenza delle forze economiche e sociali per l’innovazione delle regole fondamentali di una Repubblica fondata sul lavoro.

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“Il giorno del Big Bang sindacale”, di Roberto Mania

Eccola la “conventio ad excludendum” sindacale. Arriva a Pomigliano e a Mirafiori, alle newco, come si dice, modellate da Sergio Marchionne secondo i dettami dell’impresa globale, senza più bandiera e territori. Ma anche senza più conflitto perché chi non condivide – appunto – è fuori, senza rappresentanti, senza diritti sindacali.

Normalizzazione. Non era mai successo che un accordo firmato solo da alcuni sindacati servisse anche ad escludere un altro sindacato, nel caso specifico la Fiom che pure resta l´organizzazione con più iscritti tra i metalmeccanici.
Sindacati contro sindacati. «E´ la fine di un sistema di rappresentanza. E´ davvero un terremoto, un´esplosione», sostiene Aris Accornero, sociologo dell´industria alla Sapienza di Roma. E per tanti versi è una terra incognita quella che attende Cgil, Cisl e Uil, ma pure la stessa Confindustria alla quale le due newco non sono per ora iscritte. Dopo la concertazione, va in soffitta anche il modello di rappresentanza sindacale pensato nel 1993, che consentiva a tutti, senza per forza dover firmare i contratti ma raccogliendo almeno il 5 per cento delle firme tra i lavoratori, di concorrere alle elezioni per le Rsu (le rappresentanze sindacali unitarie). Senza l´adesione alla Confindustria, la Fiat-Chrysler non è tenuta al rispetto di questa norma e dunque si affida a una rigida interpretazione dell´articolo 19 del vecchio Statuto dei lavoratori del 1970: chi non firma i contratti collettivi non ha diritto a rappresentanti sindacali. La Fiom – «kafkianamente», dice Accornero – fatta fuori proprio dallo Statuto. Possibile, ma non scontato, perché già Gino Giugni, padre dello Statuto, aveva sottolineato la differenza tra noi, dove si è rappresentativi nel contesto complessivo, e proprio gli Usa dove conta invece solo la singola unità aziendale.
Noi non siamo l´America che vuole Marchionne. Così è facile prevedere che lo scontro si trasferirà anche nelle aule dei tribunali. Perché nemmeno i Cobas nei trasporti o nella stessa Fiat, o la Cisnal, sindacato della destra divenuto Ugl, sono mai stati esclusi. Ancora Accornero: «Il principio dell´esclusione è una novità per i sindacati». Quella nel pianeta Fiat, dunque, rappresenta una radicale – storica – frattura tra i grandi sindacati italiani. Rottura tutta sindacale, dove la politica fa da contorno, talvolta balbettando formule stereotipate, ma nulla di più. Non si ripete né lo scontro dell´84 sulla scala mobile dove fu soprattutto la politica, con il decreto di San Valentino del governo Craxi, a dettare le divisioni, né quello più recente del 2002 sul “Patto per l´Italia» dove Berlusconi, d´intesa con la Confindustria di Antonio D´Amato, tentò di isolare la Cgil di Sergio Cofferati asserragliata a difesa dell´articolo 18 che protegge i licenziamenti senza giusta causa. I contorni del campo disegnato da Marchionne sono oggi tutti sindacali: l´organizzazione del lavoro, i turni, le pause, gli straordinari, lo sciopero ma soprattutto la rappresentatività sindacale. E forse proprio per questo le accuse reciproche tra le sigle sindacali sono gravi, violente. Non c´è più l´unità d´azione tra Cgil, Cisl e Uil ma nemmeno una normale competizione. Non ci sono più le regole. Il presidente del Comitato centrale della Fiom, Giorgio Cremaschi, che solo qualche mese fa ha scritto “Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne”, è andato giù durissimo. Lui rappresentante dell´ala estrema della Fiom, quella del conflitto sociale permanente, di un sindacato-movimento che affida alla Fiom il ruolo di una sorta di “partito del lavoro” dopo la diaspora degli eredi del Pci: «Angeletti e Bonanni sono la vergogna del sindacalismo italiano. Sono fuori dalla cultura democratica sindacale dell´Italia costituzionale. Per noi non contano più niente». Espressioni, anche queste, senza precedenti che Maurizio Landini, segretario della Fiom, non ha pronunciato ma dalle quali non ha nemmeno preso le distanze. Perché Landini di fatto le condivide. Sono entrambi eredi di Claudio Sabattini, che fu “travolto” nell´80 dalla sconfitta proprio alla Fiat dopo i 35 giorni di occupazione di Mirafiori, e poi risalì fino a raggiungere il vertice della Fiom, teorizzando “l´indipendenza” dei metalmeccanici anche dalla Cgil. «Quella di Cremaschi è istigazione alla violenza», secondo il numero due della Cisl, Giorgio Santini. E Paolo Pirani, segretario confederale della Uil, con tessera del Pd: «La Fiom si configura come un movimento politico di antagonismo sociale con precise interlocuzioni nazionali verso le fasce più estreme dei centri sociali e con precisi collegamenti internazionali verso i movimenti del radicalismo ecologista e della cosiddetta resistenza palestinese».
Parole da anni Settanta, da anni di piombo. Sindacati contro sindacati. Ma pure nella Fiom si consuma una battaglia difficile. La minoranza guidata da Fausto Durante e sostenuta anche dal segretario generale Susanna Camusso si è astenuta ieri sulla decisione dello sciopero. Poi ha proposto la “firma tecnica” all´accordo per Mirafiori se nel referendum tra i lavoratori dovessero prevalere i “sì”. Landini resiste. E la Camusso punta ad un accordo in tempi brevi sulla rappresentanza sindacale. Perché questa volta c´è un destino parallelo tra Cgil e Confindustria.

La Repubblica 30.12.10

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«Sì agli investimenti, no allo strappo sui diritti»
Bersani a Il Messaggero: Fiat importante per industria e redditi, non può escludere rappresentanza sindacale di chi dissente. Referendum: scelta ai lavoratori
«Gli investimenti della Fiat sono importanti, preziosi per i territori interessati, per il nostro futuro industriale, per i redditi dei lavoratori». Dopo gli accordi di Pomigliano e Mirafiori Pier Luigi Bersani non esita a definire «prioritaria» la conferma degli impegni di sviluppo assunti dalla Fiat in Italia. Se Marchionne dirottasse altrove gli investimenti, sarebbe un colpo micidiale. Ma il segretario del Pd rifiuta il prendere o lasciare e si ribella a quanti – il governo da destra e Vendola da sinistra – gli chiedono di scegliere tra un si e un no integrale agli accordi senza Fiom. «Non rinuncerò a dire – spiega – che l’investimento è positivo e che bisogna far di tutto per tenerlo in Italia, ma anche che lo strappo sui diritti sindacali è ingiustificabile e pericoloso, e che va corretto. Noi ci batteremo per correggerlo». Bersani parla mentre a Torino il responsabile economico Fassina e i segretari regionale e provinciale del Pd (Morgan-do e Bragantini) stanno mettendo a punto un documento che definisce, più nel dettaglio, il giudizio e le proposte del partito sugli accordi Fiat.

Bersani insiste: «La nostra è una posizione forte e unitaria». E giudica supeciale la lettura di un Pd diviso tra filo-Cisl e filo-Cgil. Oppure diviso tra chi guarda al Terzo Polo e chi invece tiene di più a Vendola, oggi schieratissimo con la Fiom. Per vocazione Bersani attribuisce sempre al Pd un ruolo più ampio di ricomposizione politica. Non rinuncia, ad esempio, a rivolgersi a «tutte le opposizioni». E sostiene che, anche a partire dai problemi aperti sulla Fiat, «un governo serio dovrebbe sedersi al tavolo portando una sua politica industriale e cercando di coinvolgere le parti sociali in una nuova concertazione orientata alla crescita». Il governo Berlusconi invece «non fa questo e anzi punta sulla divisione». Dopo Piero Fassino, anche Massimo D’Alema si è augurato ieri che prevalga il sì nel referendum tra i lavoratori, in modo da confermare i nuovi investimenti Fiat. Bersani si tiene però un passo indietro: «Quella scelta tocca ai lavoratori, anche perché costerà loro sacrifici. E il Pd non farà il mestiere del sindacato». Né collateralismi, né tifosorie. Ma la linea del Pd va in quella direzione. Si agli investimenti, ma al tempo stesso battaglia in fabbrica e fuori contro la privazione dei diritti sindacali. «E inaccettabile – dice Bersani – che il dissenso venga escluso dalla rappresentanza sindacale. Se ci avviamo su questa china pericolosa, rischia di formarsi una valanga -che può travolgere -lo stesso diritto del lavoro. Oggi è esclusa la Fiom, domani in qualche fabbrica potrebbe toccare alla Fim». Il segretario del Pd riconosce a Marchionne il diritto di «esigere il rispetto degli accordi aziendali»: dopo il referendum le regole varranno per tutti. «Ma non si può escludere dalla rappresentanza chi ha espresso un’opinione contraria. Così si intacca un principio democratico».

Per il leader del Pd questa è la battaglia che la politica deve portare avanti prima e dopo il referendum. Nel documento Pd diffuso ieri a Torino si chiede di ripartire dall’intesa del 2008 tra Cgil, Cisl e Uil per definire nuove regole condivise sulla rappresentanza. Il Pd ha anche presentato una sua proposta di legge al riguardo. Ma Bersani spera che siano prima «le parti sociali a sedersi a un tavolo e definire insieme le norme». Ha colto un’«importante apertura» anche nel presidente di Federmeccanica, Pierluigi Ceccardi. «Se poi ci fosse bisogno di una legislazione di sostegno, saremo pronti. Intanto chiediamo al governo di uscire dal suo vergognoso silenzio».

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