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"Buon 2011, Pd: è l’anno decisivo", di Stefano Menichini

Buon 2011, Pd: è l’anno decisivo
Hanno ragione le persone sagge che invitano a non considerare la vicenda di Mirafiori come il nuovo paradigma sul quale misurare meriti e demeriti, innovazione e conservazione, sinistra e destra: dare al metodo Marchionne il compito di riordinare l’intero sistema Italia avrebbe come unica conseguenza amplificare, generalizzare ed estremizzare un conflitto di cui non hanno bisogno la Fiat e Torino, figurarsi questo povero paese alla scadenza del 2010.
È anche vero però che lo scontro sul futuro dell’auto arriva in un momento topico, e fatalmente diventa – nel merito e per metafora – un test cruciale per tanti.
Innanzi tutto per il Pd e più in generale per le ambizioni e le aspirazioni del centrosinistra. Perché questo è l’amaro paradosso: aver predicato per tanto tempo che non è sulle donne o sui processi di Berlusconi che si deve dispiegare il conflitto politico; e poi, arrivati al momento in cui finalmente il lavoro torna a invadere il dibattito pubblico come un tema centrale (anzi, secondo Bersani, il tema per antonomasia della vita degli italiani), ecco che l’opposizione di centrosinistra si fa cogliere impreparata, sulla difensiva, frastornata come se lo scambio fra diritti e salario fosse questione inedita.
Intendiamoci, parliamo qui del centrosinistra e del Pd perché le loro sorti ci stanno enormemente a cuore ma anche perché su altro e su altri, in questo ultimo giorno dell’annus horribilis del centrodestra, c’è davvero poco di interessante da dire.
Gli italiani son chiamati ad assistere alla corrida fra Berlusconi e Fini come spettatori, al limite tifosi, con la netta impressione che dall’esito di questo duello rusticano poco o nulla cambierà in concreto per il paese. Il fallimento – almeno per il momento – di Fini non è tanto nella sconfitta sul voto di sfiducia, nell’erosione prematura di Fli o nel ciclico linciaggio al quale lo sottopongono i fogli di propaganda del premier. Il presidente della camera, soprattutto, non è riuscito a trasformare la propria avventura in un evento coinvolgente, nel quale ogni italiano, più o meno simpatizzante, possa individuare una posta in gioco più generale.
Berlusconi da parte sua è un grande potere vuoto, il rottame di un progetto di trasformazione dell’Italia arenato su una secca: troppo grosso per essere rimosso, ma senza speranze di riprendere la navigazione. Intanto perde il carico, e sono solo liquami tossici e velenosi.
Il Pd, dunque. Il partito che dovrebbe dare all’Italia, per mutuare gli slogan della propaganda, la speranza di giorni migliori. Che non saranno purtroppo nel 2011, e questo però lo sapevamo: i tempi della ricostruzione di un’alternativa che gli italiani possano considerare credibile non sono gli stessi della crisi convulsiva del berlusconismo. Anzi, i democratici hanno vissuto con sincera inquietudine il rischio (non ancora scongiurato) di essere chiamati da subito a misurarsi con le aspettative e con le esigenze, prevedibilmente assai dure, di un’Italia post-berlusconiana.
Si può fare dell’ironia su questa impreparazione, e se n’è fatta tanta. Forse però sarebbe più corretto e utile ragionare sull’effetto più generale di desertificazione che è stato causato dal quindicennio berlusconiano: è una sindrome che affligge tutta la politica e tutta la società, certo non solo i poveri democratici. È un enorme problema irrisolto di tutti, certo non solo di Bersani. Ed è il vero lascito inquietante di quest’uomo, Silvio Berlusconi, che riuscirà a entrare nei libri di storia come un clamoroso fenomeno di costume, il simbolo del proprio tempo, ma davvero non come l’eroe eponimo di un cambiamento strutturale.
Parlando del Pd, della Fiat e del tema del lavoro, l’unico rischio che Bersani proprio non può correre, non foss’altro per ragioni di immagine, è resuscitare il “maanchismo” veltroniano sul quale tanto si ironizzava in particolare nell’area socialdemocratica del Pd. Il segretario democratico conosce troppo bene i nodi della questione che sono venuti al pettine, da poter sperare che se ne possa uscire concedendo quote di ragione a Marchionne “ma anche” alla Fiom. In particolare sarà quest’ultima a rendere impossibile, o ridicolo, un atteggiamento da pendolo: il Pd, magari strumentalmente, fa grande sfoggio di rispetto per l’autonomia del movimento sindacale; non si può dire che il più grande sindacato dei metalmeccanici faccia lo stesso nei confronti dell’autonomia della politica.
E allora almeno su questo punto è venuto il tempo di una rottura di continuità troppo a lungo rinviata. Se davvero la disponibilità, la qualità, la redditività e la produttività del lavoro sono le grandi questioni che Bersani vuole riprendere per ridefinire l’identità del partito, lui e il Pd non possono più permettere che un’oligarchia sindacale detti la linea su questi temi. Anche perché quello che succede oggi col Pd all’opposizione (e un governo assente o corrivo) è già successo in passato con l’Ulivo a palazzo Chigi, e succederà domani se il centrosinistra dovesse tornare al potere: il ricatto pesante e condizionante che già intimidì D’Alema, frenò Prodi e in sostanza impedisce di costruire soluzioni eque e innovative per un paese che appare già tagliato fuori dalle possibilità di ripresa economica, dal circuito della produzione dei beni e dei prodotti della modernità.
Qui non si tratta di difendere o no la Fiom, come s’attarda a fare Nichi Vendola per puro e semplice calcolo di parte. Qui si tratta di dare ai lavoratori una rappresentanza sindacale e politica a partire da una sconfitta della linea-Fiom che è già acquisita, irrimediabile. E attenzione, perché lo stesso identico discorso vale per tutte le altre confederazioni in altri ambiti, in primis la pubblica amministrazione: non funzioneranno mai riforme ideate e imposte contro i lavoratori che devono realizzarle; ma al potere politico devono essere riconosciuti il diritto e la possibilità di provarci.
Non diciamo che la cosa sia facile o indolore.
Ma quando Bersani promette di restituire al Pd orgoglio e autonomia, deve sapere che esattamente di questo si tratta, molto più che svincolarsi dalle insidie di un declinante Di Pietro, di un affannato Vendola (troppo presto è partita la corsa), di un calcolatore Casini. Si tratta di fare del Pd il luogo nel quale si ragiona, si decide, e domani si governa, nel nome di tutti gli italiani, non solo della parte di loro che riempie le piazze della sinistra.
Il 2011, senza possibilità di rinvio, sarà l’anno in cui si capirà se la sfida dell’autonomia sarà vinta o perduta. Ne va dell’esistenza stessa del partito, oltre che delle sue chances di tornare a governare il paese.

da Europa Quotidiano 31.12.10