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«Ai sindaci non piace il federalismo: ci toglie 2,5 miliardi. Calderoli: subito la riforma o il voto», a cura di Gianni Trovati

Ai sindaci i conti del federalismo fiscale non tornano. Mentre il decreto attuativo è dovuto approdare in parlamento senza il parere dei diretti interessati, proprio a causa delle incertezze sui fondi, i tecnici dell’Ifel, la fondazione dell’Anci per la finanza locale, si sono tuffati nelle tabelle del ministero dell’Economia e della commissione tecnica per l’attuazione della riforma, e ne sono riemersi con un timore circostanziato: la riforma disegnata dal decreto attuativo può costare ai comuni quasi 2,5 miliardi, cioè circa il 10% delle risorse in gioco, e conferma a regime tutti i tagli imposti dalla manovra estiva (la sforbiciata ai trasferimenti vale 1,5 miliardi per il 2011 e un altro miliardo per il 2012). Non solo, perché le stime fornite dal governo sul gettito dei nuovi tributi, per esempio l’emersione del “nero” sugli affitti grazie alla cedolare secca, sembrano spesso ottimistiche, e se si rivelassero contraddette dalla realtà il conto per i sindaci diventerebbe anche più pesante.

Dubbi, obiezioni e timori dei sindaci sono finiti in un dossier elaborato dall’Ifel, che ora offrirà la base di trattativa con il governo nell’ambito del tavolo tecnico che accompagna la riforma in parlamento sempre in attesa del parere dei comuni. Per ottenere il «sì» degli amministratori locali, il governo dovrà offrire garanzie su tutti i punti deboli indicati dall’Ifel (chiamato anche a lavorare ai fabbisogni standard, quale «partner scientifico» di Sose, e delegato all’attuazione delle attività di diretto contatto con i comuni).

Il meccanismo
Per capire il problema, bisogna percorrere la strada che dovrebbe portare i comuni dall’attuale sistema di finanza derivata, dipendente in larga parte dall’assegno dello stato, all’autonomia prevista dal federalismo, e fondata soprattutto sui frutti fiscali del mattone. Nel passaggio, bisognerà dire addio a gran parte dei trasferimenti statali e all’addizionale sull’energia elettrica, mentre l’Ici sopravvissuta all’abolizione sulla prima casa verrà assorbita dalla nuova Imu dal 2014: in tutto, si tratta di 25,1 miliardi di euro, che dovranno essere sostituiti dall’assegnazione ai comuni del fisco immobiliare (registro, imposte ipotecarie e catastali, bolli, tributi catastali, cedolare secca sugli affitti e Irpef sui redditi fondiari, quest’ultima destinata al tramonto) e, dal 2014, dal varo dell’imposta municipale unica (Imu) che ingloberà quasi tutte queste voci.

I calcoli
I numeri dell’Ifel partono dalle basi imponibili indicate dal- l’Economia e dalla Copaff, su cui vengono applicate le aliquote attuali e quelle che dovrebbero caratterizzare l’Imu. Le richieste dell’Imu sui trasferimenti sono già nel decreto (8%, 2% per la prima casa), mentre quelle sull’Imu legata al possesso si desumono dai calcoli ministeriali (10,6 per mille, 5,3 per mille sugli immobili dati in affitto o di proprietà di imprese). Fissate le richieste, e calcolata la fetta che lo stato continuerà a incamerare per assicurare la «neutralità finanziaria» della riforma (lo prevede il decreto), arrivano i risultati: su 25,1 miliardi, ne ballano quasi 2,5.

Nelle città
Se questo è il dato generale, i calcoli Ifel fanno un passo ulteriore, e in ogni comune mettono a confronto le risorse destinate a cadere con il federalismo fiscale (cioè trasferimenti e addizionale sull’energia elettrica) con quelle che le dovrebbero sostituire, stimando anche un recupero di evasione intorno ai 450 milioni di euro all’anno, spalmato in modo uniforme in tutt’Italia. Quest’ultimo calcolo è un esercizio teorico, perché nei primi anni le risorse del fisco sul mattone andranno a un fondo sperimentale di riequilibrio, che le distribuirà in modo da attenuare le differenze. I dati mostrano bene però gli squilibri di partenza: nei territori a statuto ordinario, il confronto fra le due voci segna a Napoli un -50% (anche a causa dei trasferimenti extra che arrivano alla città), i capoluoghi calabresi accusano perdite tra il 40 e il 50% mentre all’altro capo della classifica si incontrano le città medie del Nord. Viste le premesse, sono più i comuni che ci perdono di quelli che ci guadagnano: soffrono soprattutto i centri più piccoli (nei 4.660 comuni sotto i 5mila abitanti la flessione media è del 16,9%) e le grandi città (-5,2% sopra i 250mila abitanti).

Il grado di (s)fortuna del singolo comune nello scambio tra fisco e trasferimenti dipende da molti fattori: il Sud, capeggiato da Napoli, è penalizzato dall’incrocio fra un’elevata dipendenza dai fondi statali e un fisco immobiliare reso meno promettente da un mercato meno vivace, da un’evasione più diffusa e da valori catastali più arcaici. A regime, il compito di ridurre queste differenze è affidato al fondo di perequazione, che dovrà anche tenere conto dei fabbisogni standard di ogni comune; ma, lamentano i sindaci, questo strumento non ha ancora trovato spazio nei decreti attuativi.

da www.ilsole24ore.com